venerdì 29 giugno 2012

Il grande Silenzio

1968, di Sergio Corbucci. Con: Jean-Louis Trintigant, Klaus Kinski, Luigi Pistilli, Frank Wolff, Vonetta McGee, Mario Brega.



Film tra i più cupi del genere, dal finale agghiacciante e pregno di un pessimismo senza pari. Pressoché unanimemente, è considerato uno dei capi d'opera in ambito spaghetti western
Fortuna che Corbucci non abbia utilizzato il finale alternativo che aveva girato (visibile tra gli extra del dvd), il quale avrebbe fatto crollare tutta l'impalcatura del film, con quella macro stonatura nella sceneggiatura - l'inverosimile ritorno dello sceriffo, in pieno stile "arrivano i nostri", che oltre tutto avrebbe cozzato non poco con la poetica dominate - ed a causa di una chiusura fin troppo edulcorata e quasi ottimista, simboleggiata dal sorriso a 32 denti del plumbeo Silenzio. Si narra che il finale alternativo fosse stato imposto dalla produzione, ma che Corbucci lo girò appositamente in maniera sgangherata ed eccessiva per non fargli mai vedere la luce... 

La pellicola mette in scena una storia che rivela, ad uno dei suoi massimi picchi, tutta la cifra stilistica e contenutistica di Corbucci, incentrata ancora una volta sulla vicenda del pistolero tormentato dai fantasmi del passato (come anche in Django, Gli specialisti, Minnesota Clay, Navajo Joe), narrata attraverso la rappresentazione di una violenza esasperata, cruda e quasi mai stemperata dal cinico umorismo spesso utilizzato da altri registi del western all'italiana, Leone su tutti.
Bravissimi i due protagonisti: Jean-Louis Trintigant (in quella che rimarrà la sua unica esperienza in ambito western) è davvero efficace nell'interpretare il tragico pistolero muto Silenzio e (l'immenso) Klaus Kinski ci regala una delle sue migliori performance nei panni dello spietato cacciatore di taglie Tigrero.
Trintignant e Kinski: Silenzio e Tigrero

L'atmosfera glaciale che aleggia per tutto il film è ulteriormente suffragata e sottolineata dall'insolita ambientazione della vicenda (ispirata ad un avvenimento realmente accaduto), che vede come sfondo un inconsueto e straniante paesaggio imbiancato dall'eccezionale nevicata del 1899, che ha colpito molte zone del sud degli Stati Uniti. (il great blizzard of 1899), nello specifico lo Utah (le riprese in esterno sono state fatte, per la maggior parte, a Cortina d'Ampezzo).

Il candore della neve fa risaltare ancor di più il rosso del sangue, che scorre a fiumi, ma l'aspetto più pregnante e peculiare della pellicola risiede nel ribaltamento della figura del bounty killer, che anche se costruita come sempre intorno ad un soggetto mosso da meri ed amorali interessi economici, ne esce ammantata di un'aura luciferina, a differenza di quanto avveniva negli altri spaghetti western, dove, tutto sommato, i cacciatori di taglie non erano proprio degli eroi e degli stinchi di santo, ma quanto meno dei personaggi con i quali si creava una certa empatia. A conti fatti, il finale è analogo a quello, ad esempio, di Per qualche dollaro in più (il cacciatore di taglie che ammucchia i cadaveri dei ricercati in attesa di riscuotere il compenso), con l'unica determinante differenza che la valenza quasi epica del gesto messa in scena nel film di Leone viene completamente ribaltata, e il messaggio che ne esce è, per contro, quello di una strage sanguinosa, cruenta ed ingiusta, disturbante, mutatis mutandis, quanto quella di Soldato Blu di Ralph Nelson.

mercoledì 27 giugno 2012

Il mercenario


1968, di Sergio Corbucci. Con: Franco Nero, Tony Musante, Jack Palance, Giovanna Ralli, Eduardo Fajardo.


Film gemello di Vamos a matar, compañeros, uscito due anni dopo, con Franco Nero questa volta nei panni del Polacco, Jack Palance sempre nei panni del villain e Tony Musante nella parte del peone rivoluzionario (che sarà invece di Tomas Milian nel 1970).
I toni da commedia, rispetto a Vamos a matar, compañeros, sono più stemperati, cosi come gli aspetti picareschi, seppur presenti in embrione, atteso che la vicenda si concentra maggiormente sullo spaccato della rivoluzione tout court (che invece sarà più di contorno e di pretesto nel film successivo), con relative implicazioni vagamente ideologiche, soprattutto nel finale. A ben vedere, comunque, al di là delle vicende e dei contenuti rivoluzionari tipici del tortilla western, sembra il più leoniano dei film di Corbucci, e per l'impostazione stilistica, e per la caratterizzazione dei personaggi principali (Nero e Musante, ispirati in larga parte a Clint Eastwood ed Eli Wallach). Il culmine, durante il duello nell'arena, mutuato da quello di Per qualche dollaro in più in tutto e per tutto: la sospensione temporale - quasi irreale - dell'attesa, fortemente supportata dal commento musicale di Morricone, i primissimi piani, il Polacco a far da "giudice", i tre colpi di campana in luogo del carillon, lo spazio circolare. In più, la trovata geniale di far partecipare al duello Paco (Tony Musante) travestito da pagliaccio, che conferisce alla scena un'ulteriore valenza tragicomica.

L'Arena

Il film funziona in ogni suo aspetto: la fotografia è notevole, i dialoghi brillantissimi, Giovanna Ralli è al culmine del suo splendore e Franco Nero, nei panni di Sergei Kowalski, in quanto a coolness, è secondo solo al Clint della Trilogia del Dollaro. 
Citatissimo da Tarantino in Kill Bill, e non solo per la (eccelsa) colonna sonora.

Vamos a matar, compañeros


1970, di Sergio Corbucci. Con: Franco Nero, Tomas Milian, Jack Palance, Fernando Rey, Iris Berben, José Bodalo, Eduardo Fajardo.


Tortilla western picaresco ed avventuroso, a tratti quasi fumettistico, sempre in bilico tra il tono farsesco da commedia e il dramma dell'abbondanza di morti ammazzati. Ottima e ben assortita la coppia Franco Nero-Tomas Milian, lo Svedese e il Basco, e bravissimo ed efficace Jack Palance nei panni del perfido John che, con il suo grifone Marshall, sembra direttamente uscito da una striscia de L'uomo mascherato
Franco Nero: Lo Svedese

Molto bella (e brava) Iris Berben nel ruolo della rivoluzionaria dura e pura e notevole, come sempre, il commento musicale di Morricone. Impeccabile la regia di Corbucci, non a caso uno dei maestri del genere. 
Tomas Milian

Il film è complementare a Il mercenario, sempre di Corbucci, del 1968, nel quale Nero interpretava il Polacco e Palance il perfido "Ricciolo". Se nel primo, però, il regista aveva messo maggiormente a fuoco gli avvenimenti in chiave rivoluzionaria, in Vamos a matar, compañeros ha preferito lasciare le vicende zapatiste come sfondo, quasi un pretesto per il dipanarsi dell'avventura in chiave picaresca.
Al solito, immenso il commento musicale di Ennio Morricone, che afferma di essersi rifatto ai canti gregoriani per la composizione del main theme.


martedì 26 giugno 2012

Navajo Joe

1966, di Sergio Corbucci. Con: Burt Reynolds, Nicoletta Machiavelli, Aldo Sambrell, Fernando Rey. 

Tra le tematiche trattate dai western italiani, quella degli "Indiani" è sempre stata quasi del tutto assente, per motivi pratici anzitutto: i budget spesso ridottissimi non consentivano certo alle produzioni di andare a girare in America o assoldare oltreoceano attori che fossero credibili in tal senso.
Non è un caso, per contro, l’abbondanza di Messicani, somaticamente più imitabili, pescando tra attori del bacino mediterraneo.
In questo contesto, Navajo Joe rappresenta certamente un’eccezione, presentandoci addirittura un nativo americano quale protagonista, anticipando le tematiche antirazzisite che saranno care al western revisionista americano degli anni ’70, che avrà il suo culmine in tale ambito con capolavori quali Soldato Blu di Ralph Nelson e Piccolo grande uomo di Arthur Penn.
A suo modo, un film politico, accostabile da questo punto di vista, fatti i debiti aggiustamenti, al terzomondismo degli zapata western.

Ciò detto, il film – sceneggiato da Di Leo – offre alti e bassi: Corbucci è un fuoriclasse e a tratti lo fa vedere, Ennio Morricone (qua accreditato, seconde le usanze dell’epoca, come Leo Nichols) sfodera una colonna sonora eccezionale (ripresa in larga parte da Tarantino in Kill Bill), Aldo Sambrell (un habitué degli spaghetti western, grande caratterista) è davvero bravissimo nell’impersonare il perfido cacciatore di scalpi indiani Duncan e Nicoletta Machiavelli (altra figura non trascurabile del western nostrano) è bellissima e piuttosto credibile nei panni della mezzosangue.
Le nota più dolente – sostanzialmente l’unica, ma troppo precipua per essere trascurata – risiede proprio nell’interpretazione dell’allora sconosciuto Burt Reynolds, acerba e piuttosto sciatta. A ciò si aggiunga la poca credibilità dell’attore nei panni di un Indiano navajo, nonostante le sue remote origini cherokee, e la frittata è fatta. Certo, il film non ne risulta del tutto compromesso, ma la presenza della futura super star Reynolds (che in questo film, tra l’altro, ricorda in modo inquietante, anche nell’espressività, Ron Moss, il Ridge di Beautiful!) proietta un’ombra comunque ingombrante su una pellicola che, per contro, vanta ottimi spunti e non pochi aspetti degni nota, come rimarcato in precedenza.

venerdì 22 giugno 2012

Dove si spara di più

1967, di Gianni Puccini. Con: Peter Lee Lawrence, Andés Mejuto, Cristina Galbò, Maria Cuarda, Piero Lulli, Pietro Martellanza.


Bislacca e curiosa trasposizione in salsa western del Romeo e Giulietta shakespeariano (e manco tanto tra le righe: a un certo punto la prostituta francese innamorata di Johnny, pervasa dalla gelosia, dice papale papale ad uno dei fratelli di Giulietta, per rivelargli l'esistenza della relazione proibita: "Hai presente Shakespeare?"), diretta dal regista di fama intellettuale Puccini e scritta da una delle pochissime sceneggiatrici donne in ambito "spaghetti", la spagnola Maria Del Carmen Martínez Román.

In realtà, la vicenda amorosa viene a galla solo nella seconda parte del film. La parte iniziale, infatti, si sviluppa principalmente attorno alla divertente ed azzeccata figura di Left Gun (brillantemene interpretato dall'attore spagnolo Andés Mejuto), il vecchio ed alcolico pistolero con un uncino al posto della mano, e del suo rapporto con Johnny, rivisitazione del classico tema dell'incontro/scontro tra due generazioni, con tutte le implicazioni del caso.

Più grottesco che allegorico il finale (qualcuno ha addirittura scomodato Bergman...), con la morte in persona che compare nerovestita - con tanto di cappellaccio da cowboy! - per prodigarsi alla causa della pulizia etnica del genere umano: la Fredda Signora, si mette ad accoppare senza pietà (e ci mancherebbe), a colpi di Colt, i pochi superstiti del massacro conclusivo. Qua, infatti, a morire non saranno i due giovani amanti come nel calssico shakespeariano, ma le loro famiglie al completo.


giovedì 21 giugno 2012

Yankee

1966, di Tinto Brass. Con: Philippe Leroy, Adolfo Celi, Mirella Martin, Francisco Sanz, Tomás Torres.
  
Curiosissimo esperimento pop di Tinto Brass, che in questo film porta alle estreme conseguenze i tratti stilistici, tanto sul piano formale che sul piano sostanziale, del western all’italiana, girando il film come se fosse un fumetto, puntando tutto o quasi sul linguaggio visivo: inquadrature spericolate ed estreme (a tratti raffinatissime) – con primissimi piani sia dei protagonisti (ottenuti inquadrando spesso un solo occhio: il parossismo del primissimo piano à la Leone) che degli oggetti (evidenziati con un gusto quasi eccessivo del dettaglio) – massima stilizzazione dei personaggi (anche nell'uso del linguaggio, che assomiglia molto a quello dei fumetti, in particolare lo spagnolo quasi maccheronico e le imprecazioni del Grande Concho di Adolfo Celi, che sembrano essere presi a prestito da un nuvoletta di un villain di Tex Willer!), tagliati con l’accetta nella loro caratterizzazione e privi di qualsivoglia accenno di approfondimento psicologico, un utilizzo parossistico (ma affascinante ed efficasissimo) del controluce e presentazione di situazioni al limite dell’incredibile, con uno sviluppo narrativo anch’esso estremo nella schematizzazione.
Evidente il richiamo alla pop art visiva nella scena in cui vengono mostrati per la prima volta il Grande Concho e il suo rifugio. Mi ha ricordato molto lo spirito figurativo che aleggia nel Diabolik di Mario Bava  di due anni successivo (nel quale, a latere, presenzia nuovamente Adolfo Celi), guarda caso tratto proprio da un fumetto.
Adolfo Celi: Il Grande Concho
Diabolik di Mario Bava, 1968
In nuce, si può già intravedere il gusto per il particolare erotico del buon Tinto, che in un paio di occasioni omaggia il décolleté (rectius: le tette) di Mirella Martin.
Pare che il produttore abbia messo pesantemente mano alla pellicola in fase di montaggio, cercando di darle una connotazione più convenzionale, snaturando di fatto quelli che erano i propositi iniziali di Brass, decisamente più sperimentali, e che questi abbia addirittura tentato, infruttuosamente, di far eliminare il suo nome dai titoli di testa, disconoscendo di fatto il progetto. 

mercoledì 20 giugno 2012

Il ritorno di Ringo

1965, di Duccio Tessari. Con: Giuliano Gemma, Fernando Sancho, Lorella De Luca, Nieves Navarro, Antonio Casas.


Il titolo è il classico specchietto per le allodole, nel senso che avrebbe voluto far intendere che il film fosse il sequel di Una pistola per Ringo, uscito lo stesso anno con un ottimo successo di pubblico.

In realtà, la pellicola in oggetto non ha nulla a che spartire con la precedente in termini narrativi, ma neanche stilistici, nonostante il regista (Duccio Tessari), gli attori e la troupe siano praticamente gli stessi.
Il ritorno del protagonista si riferisce, per contro, al rientro a casa del nostro eroe (nel film Montgomery Brown, detto Ringo, per altro un'unica volta in tutto il film (proprio per la serie: Ringo, da qualche parte, dovevamo pur infilarcelo, per ragion di botteghino...) dopo aver preso parte alla Guerra di Secessione con la giubba blu dei nordisti, nonostante la sua patria fosse il New Messico, e questo forse proprio per sottolineare maggiormente il tema della lontananza da casa. La pellicola è, infatti, un'esplicita riproposizione in chiave western dell'Odissea di Omero (adattata per il cinema dal grande Fernando Di Leo, che prima di diventare il re del noir italiano dietro la macchina da presa, ha contribuito non poco, come sceneggiatore, alla causa dell western all'italiana, anche lavorando con il Leone delle origini, segnatamene collaborando alla stesura di Per un pugno di dollari, pur se non accreditato), con Giuliano Gemma nei panni dell'epigono di Ulisse Colt-munito (ed insolitamente biondo nella prima parte del lungometraggio), che ha inaugurato una tendenza non certo secondaria del western italiano, e cioè quella di trarre ispirazione dai classici del passato per lo sviluppo della sceneggiatura (ad esempio: la tragedia greca in Tempo di massacro di Lucio Fulci, Shakespeare in Dove si spara di più - Romeo e Giulietta - di Gianni Puccini e Quella sporca storia nel west - Amleto - di Enzo G. Castellari, oltre ai vari riferimenti biblici in E Dio disse a Caino di Antonio Marghriti, Mille dollari sul nero di Alberto Cardone, Keoma di Enzo G. Castellari, e via discorrendo).
Come accennato il film, oltre a non essere il seguito o il prequel (come ha azzardato ad ipotizzare qualcuno) di Una pistola per Ringo, atteso i che i due omonimi protagonisti non hanno davvero nulla in comune se non il ghigno di Giuliano Gemma, cambia anche decisamente registro rispetto al precedente. Qua i toni si fanno più seriosi e drammatici, mentre le parti più leggere ed umoristiche - che in Una pistola per Ringo avevano rappresentato la linfa vitale dell'opera, nonostante i numerosi morti ammazzati - sono ridotte all'osso.

L'unico trait d'union tra i due Ringo, a conti fatti, sembra essere l'utilizzo del tormentone: "Poi ti spiego" nel nostro caso, "È una questione di principio" nell'altro.

Mannaja

1977, di Sergio Martino. Con: Maurizio Merli, John Steiner, Philippe Leroy, Sonja Jeannine, Donald O'Brien, Martine Brochard





















Fra gli ultimissimi western italici girati, Mannaja fa parte di quella serie di film che, al tramonto degli "spaghetti", ha cercato di svincolarsi dall'ormai imperante e tragicamente comicarolo fenomeno dei c.d. "fagioli western", provando a rilanciare il genere con nuove idee.


Come noto, l'operazione di rilancio non riuscì affatto (non si trattò di una rianimazione d'urgenza, ma di un vero e proprio tentativo di resuscitare un morto), così come non è completamente riuscita la pellicola in oggetto, che qualitativamente rimane ai blocchi di partenza rispetto ai coevi (o quasi) California di Michele Lupo, Keoma di Enzo G. Castellari e I quattro dell'apocalisse di Lucio Fulci.












Intendiamoci, il film non è completamente da buttare, ed anzi presenta alcune parti decisamente riuscite, che denotano un certo virtuosismo di Martino dietro la macchina di presa, ma precipita vorticosamente in talune altre: la sceneggiatura non è certo impeccabile - a tratti sembra un po' raffazzonata, ma soprattutto affianca ad un manicheismo, abbastanza tipico del genere, alcuni elementi sentimentalistici che stonano non poco - l'utilizzo del ralenty à la Peckimpah è ridondante (in deninitiva... non è affatto  à la Peckimpah!), cosi come l'uso massiccio e un po' troppo scontato del flashback, la colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis (gli Oliver Onions, per capirsi), non riuscitissima, è troppo pretenziosa.












Non malaccio, anche se un po' monocorde, l'interpretazione di Maurizio Merli (un po' un clone di Franco Nero), prestato al western per un'unica volta dal poliziottesco.
Le parti più efficaci del film, alla fine, paiono essere quelle contaminate con elementi del cinema horror di matrice sanguinolenta (l'incipit, il massacro dopo l'assalto alla diligenza, il seppellimento da vivo di Mannaja).
Per appasionatissimi e completisti del genere.

lunedì 18 giugno 2012

Da uomo a uomo

1967, di Giulio Petroni. Con: Lee Van Cleef, John Phillip Law, Luigi Pistilli, Mario Brega, Anthony Dawson, Franco Balducci.

Bellissimo film di Petroni, uno dei migliori autori - e sottolineo, autore: qua non siamo di fronte alla classica e celebrata figura dell'abile artigiano del cinema, regina nel mondo degli "spaghetti" e di tutto il cinema di genere italiano degli anni '50, '60 e '70 - nell'ambito del western all'italiana per chi scrive, che almeno quattro grandi film li ha fatti (su cinque: una bella media), ognuno per altro assolutamente a sé stante dal punto di vista stilistico e dei contenuti, una scelta coraggiosa ed apprezzabile che ha però avuto l'effetto collaterale di far passare il regista un po' in secondo piano, per via del grossolano errore fatto da molti nel confondere l'eclettismo con la mancanza di personalità.
Come ha giustamente detto qualcuno, Da uomo a uomo potrebbe essere quasi considerato il quarto capitolo apocrifo della Trilogia del Dollaro leoniana, pur senza essere un mero esercizio di emulazione della cifra artistica di Leone stesso.

Fantastica, praticamente da antologia, l’apertura del film, nella quale Petroni mette in risalto le sue indiscutibili qualità dietro la macchina da presa: la scena del massacro notturno iniziale crea una tensione degna dei migliori thriller ed è magistralmente diretta.
Kill Bill Vol 1: O-Ren Ishii
E non che il resto del film sia da meno, con Lee Van Cleef in una delle sue migliori interpretazioni (al pari di quelle leoniane e di quella di Frank Talby ne I giorni dell'ira, di Tonino Valerii) ed un in un più che convincente John Phillip Law, a condurre le danze. Questi, può essere visto quasi come un acerbo "straniero senza nome". Mi sono immaginato la storia come una sorta di prequel delle vicende del cinico e gelido personaggio interpretato da Clint Eastwood, di quando cinico e gelido del tutto non lo era ancora e un nome ce l'aveva.
Pellicola citatissima da Tarantino nei suoi Kill Bill: le musiche - sublimi - di Morricone in primis, ma anche i flash back in rosso del protagonista quando reincontra uno ad uno i carnefici della sua famiglia e rivive le scene del massacro, l'dea stessa del bambino che assiste all'eccidio dei propri genitori (ripresa dal buon Quentin nella parte anime, quando racconta la storia di
O-Ren Ishii), i primissimi piani sugli stivali texani, il tema stesso della vendetta, narrativamente sviluppata come la lenta ricerca di un gruppo di persone da scovare una ad una molto tempo dopo il fatto di sangue scatenante.
In definitiva, uno di quei film che potrebbe (rectius: dovrebbe) piacere anche ai non appassionati del genere, financo ai detrattori.

sabato 16 giugno 2012

I quattro dell'apocalisse

1975, di Lucio Fulci. Con: Fabio Testi, Lynne Frederick, Michael J. Pollard, Harry Baird, Tomas Milian, Bruno Corazzari, Adolfo Lastretti, Giorgio Trestini


I quattro dell'apocalisse fa parte di quel ristretto gruppo di film che, ad anni '70 abbondantemente inoltrati, quando il western italiano era ormai irrimediabilmente compromesso su tutti i fronti (quello qualitativo innanzitutto), ha provato – e con successo, per chi scrive – ha ridare linfa al genere proprio al suo crepuscolo, un po’ come a dire: “almeno chiudiamo in bellezza”. Basti pensare a Keoma, California, ma anche, seppur in misura minore, a Mannaja.
In questo contesto, Fulci, al suo secondo western (il terzo, Sella d’argento è considerato, per convenzione, uno degli ultimi “spaghetti” prodotti), gira quello che di fatto è un originalissimo e nerissimo road movie (ridotto per il grande schermo da alcuni racconti di Francis Brett Harthe), caratterizzato da una narrazione singhiozzante, una fotografia ricercata e a tratti luminosissima e soprattutto dalla crudelissima cifra stilistica del regista, che se in Le colt cantarono la morte e fu … tempo di massacro era già presente in fase embrionale, qua esplode in tutto il suo perfido splendore. E, per chi come me non ama gli zombies e l’horror in generale, in quello che rappresenta il suo più alto picco qualitativo.
I personaggi a cui fa riferimento il titolo, un gruppo disomogeneo di disperati - un gambler un po’ dandy (Fabio Testi), una prostituta incinta (Lynne Frederick, la bellissima ultima moglie di Peter Sellers), un nero toccato che parla con i morti (Harry Baird) e un alcolizzato (Michael J. Pollard) - sono ottimamente caratterizzati e decisamente ben interpretati, ma una menzione a parte ed un’attenzione particolare vanno concesse al Chaco di Tomas Milian (eccezionale, in una delle sue migliori performance, che dice di essersi ispirato a Charles Manson per interpretare questo ruolo), un villain assolutamente fuori dagli schemi e decisamente in linea con la poetica della crudeltà di Fulci, la cui malvagità non è il veicolo per raggiungere un obiettivo di qualsivoglia tipo (nel western, usualmente, un vantaggio economico), ma è il fine, la sostanza stessa del suo essere: decisamente il più sadico, pazzo, bastardo, figlio di puttana che abbia mai calcato le scene di un western italiano, e forse non solo. 
È infine opportuno spendere due parole per la colonna sonora, che si discosta in maniera radicale da quelle più tipiche dei classici western (sia americani che europei) e si appropria per contro di sonorità di chiara matrice country-rock e west coast, conferendo all’opera un tono molto yankee e molto "anni '70", anche per i brani cantati (e già questa, da sola, sarebbe una peculiarità) in inglese.

giovedì 14 giugno 2012

Per il gusto di uccidere

1966, di Tonino Valerii. Con: Craig Hill, George Martin, George Wang, Fernando Sancho, Piero Lulli, Rada Rassimov.

Esordio con il botto, quello di Tonino Valerii nel western all'italiana. Nonostante sia considerato dai più uno dei suoi film minori (soprattutto a cospetto dei due celeberrimi Il mio nome è Nessuno e I giorni dell'ira), Per il gusto di uccidere è un opera di tutto rispetto, e forse anche qualche cosa in più. Per qualcuno, come Marco Giusti nel suo Dizionario del western all'italiana, addirittura il suo capo d'opera.
Di certo, c'è che la pellicola si distanzia non poco da quelli che saranno la poetica e lo stile di Valerii nei suoi film successivi, vuoi per l'influsso pesante che avrà la lezione stilistica leoniana nei suoi confronti, vuoi per la più o meno esplicita morale che farà da sfondo e da epilogo alle vicende messe in scena.
Qua, per contro, ci si trova dinnanzi ad uno dei più amorali e cinici personaggi di tutta la filmografia “spaghetti”, che prende a prestito dal caposcuola Leone soltanto l’idea dello “straniero senza nome” (nel nostro caso, con nome e cognome), per poi proporla allo spettatore col tramite di una regia asciutta e senza fronzoli. Il Lanky Fellow dell’ottimo Craig Hill è un bounty killer dallo sguardo impenetrabile ed il perenne sorriso beffardo stampato sulla faccia, calcolatore, analfabeta (sa leggere solo le cifre sui dollari e sui manifesti che pubblicizzano i ricercati, per poter valutare se la taglia vale la pena della fatica) e interessato solo e soltanto al denaro. Di striscio, anche alla vendetta del fratello, ma tale sentimento, in Lanky Fellow, sembra davvero appartenere ad una vicenda collaterale e secondaria, soprattutto nella sua scala di valori. 
Anche nel modus operandi il Nostro è cinico e spietato come pochi altri (per lo meno fra quelli dovrebbero essere i “buoni”): disdegna lo scontro ravvicinato,  agendo spesso da lontano, grazie ad un cannocchiale, che trasforma il suo fucile in un’arma ad altissima precisione (emblematica, da questo punto di vista, la geniale battuta che riserva al malcapitato di turno, il sempiterno Fernando Sancho, che viene freddato al termine del prologo: “Non vado mai dove posso mandare un proiettile”! Per non parlare del fatto che assiste, senza fare un plissé, alla strage dei soldati di scorta al tesoretto di turno: fermare i banditi prima dell’assalto, non gli avrebbe fruttato il giusto in termini economici.
Gli unici aspetti afferenti alle relazioni umane (mi pare eccessivo parlare di approfondimento psicologico dei personaggi), per contro, si possono riscontrare proprio nel capo dei banditi, il perfido e spietato Gus (quanto e se più spietato di Lanky, è tutto da dimostrare), segnatamente nell’intenso rapporto che lo lega alla sua donna ed a suo figlio (bambino, che Fellow non si fa alcuno scrupolo a rapire, quando se ne presenta l’occasione…). 
Bellissimi e coloratissimi i titoli di testa e più che discreta la briosa colonna sonora di Nico Fidenco.
Infine, per la serie “trova la citazione”, appare sulle scene per la prima volta un personaggio messicano, con i baffoni a manubrio, di nome Machete, che utilizza l’omonimo arnese quale arma prediletta… che Tarantino e Rodriguez ne sappiano qualcosa? 
Machete