martedì 31 luglio 2012

Requiescant

1967, di Carlo Lizzani. Con: Lou Castel, Pier Paolo Pasolini, Mark Damon, Ninetto Davoli, Franco Citti, Barbara Frey, Mirella Maravidi. 

 
Più che onesto (ma neache memorabile, visti i valori in campo...) western dai toni terzomondisti, diretto dal regista "impegnato" Carlo Lizzani con la partecipazione niente di meno che di Pier Paolo Pasolini nella parte del prete rivoluzionario Don Jaun (con Ninetto Davoli e Franco Citti al seguito), quasi a voler sussidiare la fusione simbolica tra le istanze della sinistra radicale e quelle del mondo cattolico più puro.
La presenza di Lizzani (che nello stesso anno firma un altro western, Un fiume di Dollari) e Pasolini dimostra una volta di più che nel quinquennio d'oro degli "spaghetti" un po' tutti, per vocazione o per "costrizione", si approcciavano al genere.
Bravo Lou Castel, la cui espressività un po' statica giova al fine di animare il pistolero un po' ingenuo e timorato di Dio, che intona il requiescant in pace dopo aver accoppato il malcapitato di turno, sempre nel nome della giustizia e delll'affrancamento degli oppressi penoes dal perfido latifondista yankee. La pellicola, infatti, è un tortilla western un po' sui generis, visto che mette a fuoco non lo scontro istituzionale e politico in senso stretto rappresentato dalla rivoluzione, ma l'altra faccia della medaglia, ovvero la contrapposizione, più ideologica e di derivazione più prettamente marxista (e intellettuale), tra il capitale (ovviamente rappresentato dal nordamericano) e il sotto-proletariato sfruttato.

Da un punto di vista prettamente stilistico, paradossalmente, la direzione di Lizzani è piuttosto accademica e sotto molti punti di vista sembra attingere più dal western classico americano che non al "rivoluzionario" western italiano.
Commento sonoro di Riz Ortolani, senza infamia e senza lode.

domenica 29 luglio 2012

Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro

1966, di Lucio Fulci. Con: Franco Nero, George Hilton, Nino Castelnuovo, Linda Sini, Giuseppe Addobbati, Tom Felleghy.
Primo dei tre western diretti da Fulci, Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro mostra già in nuce il suo gusto per il particolare truculento e la sua attitudine al cinema della crudeltà, che si sarebbero poi manifestati il tutto il loro "splendore" da lì a pochi anni con le pellicole horror (grazie alle quali ha assunto lo status di regista di culto) e che avrebbero trovato in I quattro dell'apocalisse (per chi scrive, il suo western migliore), un'importante tappa intermedia. 
Il film, ovviamente, è violentissimo e quasi del tutto privo dell'ironia (nera) tipica degli spaghetti western, fatte salve un paio di battute di Jeffrey, il personaggio interpretato da George Hilton (perennemente sbronzo ma preciso come un cecchino con la Colt) e del curioso tuttofare cinese. Franco Nero, va beh, è Franco Nero, il Clint de noantri. E di Clint indossa pure i vestiti in questo film: i costumi di scena sono i medesimi utilizzati da Eastwood nella Trilogia del Dollaro!
Merita senz'altro una menzione anche Nino Castelnuovo (ve lo ricordare il tizio che saltava la staccionata nella celebre pubblicità dell'Olio Cuore degli anni '80? Beh, è lui), assolutamente convincente nella parte (per lui insolita) dello psicotico e feroce fratellastro di Nero.

Molto peculiare la fotografia, a tratti straniante, con le tonalità bianche luminosissime (pur senza essere sovraesposte), contrappuntate da colori cupissimi nelle scene più buie e da un cielo perennemente grigio, e non per fattori meteorologici.
La sceneggiatura è di Fernando Di Leo e sembra ricercare alla lontana ispirazione dalla tragedia greca (lo conferma lui stesso un un paio di interviste), visti gli edipici ammazzamenti famigliari e le relative implicazioni, inconsuete per un western. 

Musiche del grandissimo Piero Umiliani.

sabato 28 luglio 2012

Dio perdona... io no!

1967, di Giuseppe Colizzi. Con: Terence Hill, Bud Spencer, Frank Wolff, José Manuel Martin, Frank Braña, Francisco Sanz, Gina Rovere.

Primo capitolo della trilogia di Giuseppe Colizzi (seguiranno I quattro dell'Ave Maria nel 1968 e La collina degli stivali nel 1969),  Dio perdona... io no!, oltre ad essere un assolutamente pregevole spaghetti western, ha il non trascurabile merito di aver messo insieme per la prima volta sul grande schermo come protagonisti (si erano già incrociati in gioventù su un paio set, con ruoli molto marginali, ma mai interagendo) la coppia di attori più celebre, sondaggi alla mano, del cinema italiano: Bud Spencer (Carlo Pedersoli) e Terence Hill (Mario Girotti).
Certo, siamo ancora lontani dalla canonizzazione della coppia in chiave comica, perfezionata irreversibilmente da E.B. Clucher (Enzo Barboni) con il celeberrimo Lo chiamavano Trinità. Terence Hill è ancora un giovane virgulto ingaggiato - all'ultimo momento, quale rincalzo di Peter Martell (Pietro Martellanza), infortunatosi all'inizio delle riprese - per lo più perchè assomiglia a Franco Nero (e come tale si comporta e recita) e Bud Spencer (già doppiato dalla sua "voce" storica, Glauco Onorato), dopo qualche esperianza attoriale giovanile di poco conto, è al suo primo lungometraggio da protagonista. Pare sia stato scelto da Colizzi sostanzialmente perché il regista aveva bisogno di un personaggio con la sua stazza, e il mercato non offriva altro...
Pur tuttavia, in embrione si possono già intravedere tutte le caratteristiche salienti del duo. Le scazzottate (anche se qua sono verosimili e fanno male: lasciano lividi, provocano ferite sanguinolente e fanno perdere i sensi), la caratterizzazione della coppia, con un personaggio astuto e veloce e l'altro un po' più tonto e possente, il continuo battibeccare tra i due a guisa di cane e gatto, la bonaria composizione della vicenda. Anche un certo buonismo, che sarà proprio della "poetica" del duo, può essere intercettato in filigrana: Earp (Bud Spencer) impersona  il pistolero onesto e a suo modo integerrimo (quasi reazionario, in ambito spaghetti!) che vuole riportare il malloppo all'assicurazione per cui lavora e Doc (Terence Hill) recita la parte del Clint Eastowood e del Franco Nero di turno, ma alla fine, per quanto da una parte espliciti la sua volontà di appropriarsi dell'oro, dall'atra lascia intendere tra le righe che non è poi del tutto certo che finirà così.
Ciò detto e giustamente rimarcato, la nascita del duo Spencer-Hill non deve far passare in secondo piano la prova decisamente convincente e a tratti memorabile dell'antagonista, Frank Wolff, (nei panni dell'astuto e perfido Bill Santantonio), per l'occasione doppiato da Oreste Lionello (sarà per questo che mi ricorda in maniera precipua Gene Wilder, al quale in effetti assomiglia solo vagamente nei tratti somatici).
La trama del film è l'ennesima (ma ben congeniata) variazione sul tema del classico archetipo leoniano, così come molto leoniana è la direzione di Colizzi, con ambientazioni, primissimi piani e caratterizzazione dei personaggi che devono non poco all'insegnamento di Bob Robertson. Non di meno, il film appassiona, scorre con un buon ritmo e non ha assolutamente il sapore dell'emulazione stantia, sotto nessun punto di vista, con tanto di mexican standoff "monco" sul finale.
Ottima (questa, per nulla morriconiana!) la colonna sonora di Carlo Rustichelli, il quale, come anche in altre circostanze, a tratti strizza l'occhio più ai classici hollywoodiani che non ai commenti sonori tipici dello "spaghetti".

giovedì 26 luglio 2012

Sentenza di morte

1968, di Mario Lanfranchi. Con: Robin Clarke, Richard Conte, Enrico Maria Salerno, Adolfo Celi, Tomasa Milian, Luciano Rossi.


Sentenza di morte è, di fatto, un film ad episodi, l'unico che mi venga in mente nell'alveo dello spaghetti western.
La vendetta di Cash (un inespressivo e un po' anonimo Robin Clarke) pare essere un mero pretesto per lo sviluppo delle quattro vicende. L'intreccio così strutturato porta al parossismo sul piano narrativo (e su quello della caratterizzazione dei villains) l'idea, già sviluppata da Giulio Petroni in Da uomo a uomo, della ricerca ad uno ad uno degli assassini della propria famiglia (in questo caso del fratello) per poter compiere la più classica delle vendette. Idea per altro ripresa anche da Quentin Tarantino con i due volumi del revenge movie per eccellenza degli anni 2000, Kill Bill.
Veri protagonisti - e pezzi da novanta del film - sono i villains che Cash insegue per compiere la propria vendetta. I "cattivi" di super lusso sono, nell'ordine: Richard Conte (il più umano e fragile), uno straordinario Enrico Maria Salerno (il raffinato ed acuto gambler), Adolfo Celi (il sedicente prete col vizietto della Colt) ed un allucinato Tomas Milian, bravissimo nella parte (che sembrerebbe studiata pensando a Klaus Kinski) dell'albino biancovestito con il debole per l'oro e per le donne bionde.

Ad ogni vendetta di Cash l'atmosfera cambia radicalmente (come detto, si tratta di veri e propri episodi, uniti solo dal comun denominatore della vendetta, che è però poco più di un - eccellente - pretesto) e man mano che si passa al villain successivo, il clima si fa sempre più tetro e straniante, in un climax ascendente che porta sino al finale, decisamente sopra le righe, a metà strada tra l'horror gotico ed il pop lisergico.
Particolarissima (e bella) la colonna sonora di Gianni Ferrio, imbottita di inserti ed influenze jazz.

mercoledì 25 luglio 2012

7 Dollari sul rosso

1966, di Alberto Cardone. Con: Anthony Steffen, Fernando Sancho, Roberto Miali, Elisa Montés, Loredana Nusciak, Bruno Carotenuto, Josè Manuel Martin.


Prima di puntare 1.000 Dollari sul nero, stravincendo, Alberto Cardone (prodotto in entrambi i casi da Mario Siciliano), tenta la fortuna sul rosso. Anche qua, l'allusione del titolo al gioco d'azzardo è un calembour: i 7 Dollari de quibus sono quelli che il perfido bandolero "Sciacallo" (Fernando Sancho) getta in segno di spregio sulla gonna purpurea della moglie di Johnny Ashley (Anthony Steffen, più sciolto del solito, in una delle sue migliori performance) dopo averla freddata, durante il prologo del film.
La prima parte della pellicola, invero, viaggia a tre cilindri. Risulta un po' raffazzonata, approssimativa e non così travolgente, pagando il combinato disposto del solito budget risicato e dell'evidente fretta con cui è stato girato (e montato) il film. Il vano girovagare di Johnny Ashley, assetato di vendetta ma, soprattutto, alla ricerca del figlio Jimmy di 2 anni, rapito dallo "Sciacallo", e le gesta di quest'ultimo appaiono un po' slegati e l'incedere narrativo sincopato, non riuscendo ad incanalare il film sul binario giusto.
Tutt'altra musica nella seconda metà dell'opera quando, dopo un'ellissi decisamente acrobatica, ci viene presentato Jimmy (Roberto Miali, ottimo nella parte) ormai adulto e convinto di essere figlio dello Sciacallo e della sua donna.
Da questo momento, la pellicola prende tutta un'altra piega, facendo proprio un ritmo incalzante e migliorando incredibilmente in ogni suo aspetto (fotografia, montaggio... perfino la colonna sonora di Francesco De Masi è più funzionale e coinvolgente!). Insomma, diventa - inaspettatamente - un bel film, con un drammaticissimo e bellissimo duello finale da tregenda, sotto la pioggia battente.
7 Dollari sul rosso può essere considerato il primo capitolo di una nerissima trilogia, composta dal presente film, dal già citato 1.000 Dollari sul nero e da I vigliacchi non pregano di Mario Siciliano (come accennato, già produttore - pare molto assillante e proattivo sul set - delle altre due pellicole).
L'dea di fondo, dichiarata sin dalla citazione biblica iniziale, dal libro di Salomone (che poi, mutatis mutandis, è di base il concetto ripreso e in un certo senso portato elle estreme conseguenze da Jean-Jaques Rousseau con il suo mito del buon selvaggio), è quella di ritagliare un intreccio narrativo poggiato sulla pessimistica idea che, per quanto puro alla nascita, l'uomo che viene a contatto con il male ne verrà irrimediabilmente contagiato e corroso, ed anzi - vedasi il caso di specie - diverrà ancora più malvagio dei suoi stessi mentori. Cruciale e sintomatico, in quest'ottica, il folle e spietato omicidio della matrigna compiuto da Jimmy sul tragico finale, prima dello straziante ed inevitabile scontro padre-figlio.
Fortissime le analogie con la conclusione degli altri due episodi della trilogia: in 1.000 Dollari sul nero sarà messo in scena un duello tra fratelli (Caino ed Abele, dove però a perire sarà uno psicotico Caino, interpretato da un memorabile Gianni Garko), mentre in I vigliacchi non pregano lo scontro rappresentato vedrà contrapposti due amici (con ancora uno strerpitoso Garko - un valore aggiunto, è d'uopo rimarcarlo - nella parte dello sfaccettatissimo villain), in contesti che fanno riecheggiare richiami tanto biblici (da Vecchio Testamento) quanto da tragedia greca.


martedì 24 luglio 2012

I vigliacchi non pregano

1969, di Mario Siciliano. Con: Gianni Garko, Ivan Rassimov, Roberto Miali, Luciano Pigozzi, Elisa Montés.

Premessa: ho visto il film in condizioni a dir poco precarie, al limite del drammatico. Sono riuscito a reperire unicamente una sghembissima copia carbonara del film, composta da un tragico collage di, nell'ordine: versione doppiata in francese (tutto il prologo), pessima versione in italiano (ma nei limiti dell'accettabile) e, per concludere in bellezza, riversamento del filmato da videocassetta contenente spezzoni di film registrati da tv locale sconosciuta e dalla qualità audio/video che lascio immaginare al lettore (fuori dai limiti dell'accettabile). Il tutto, con audio altalenante nei picchi di volume e spesso e volentieri fuori sincrono, roba che a confronto i deliri di Ghezzi a Fuori orario sembravano acute lezioni di dizione.
Ciò detto, fosse stato un filmaccio da battaglia non me sarebbe importato un granché, ma dato che la pellicola, per quanto non troppo nota, è assolutamente di pregio e degna di considerazione (nonostante sia abbastanza evidente la scarsezza di mezzi con cui è stata girata), un po' le balle mi sono girate, mi si passi il francesismo.
Primo (e temo unico rimarcabile) film di Mario Siciliano dietro la macchina da presa (dopo essere stato il produttore - molto presente sul set, pare - di 7 Dollari sul rosso e 1.000 Dollari sul nero di Alberto Cardone), I vigliacchi non pregano è un'altra pellicola nerissima, che vede come protagonista uno straripante Gianni Garko. Le convenzioni vorrebbero che il protagonista fosse il "buono" Daniel, impersonato da Ivan Rassimov - al secolo Ivan Djerasimovic e qua accreditato come Sean Todd - ma in questo caso il personaggio positivo è a mio avviso secondario, plasmato con la finalità principale di rendere più agevole lo sviluppo delle caratteristiche del "cattivo". Questi - il perfido e sulfureo Bryan Clarke animato da Gianni Garko - non è però un villain convenzionale. È un personaggio sfaccettato, che all'inizio sembra essere solo la vittima di un sopruso, in conseguenza del quale ci si immagina una canonica vicenda di vendetta e rappresaglia, che tuttavia non prenderà mai forma.

Nel prologo, infatti, alcuni soldati nordisti, nonostante la Guerra si Secessione si sia conclusa, si introducono forzosamente in casa di Bryan uccidendone la moglie, dopo averne abusato, e ferendolo quasi mortalmente.
Quando il Nostro riprende conoscenza dopo alcuni giorni (grazie a Daniel, che lo salva quasi per caso) inizia un climax ascendente che disvela a poco a poco - allo spettatore ma, soprattutto, al suo salvatore, con il quale instaura inizialmente un rapporto di amicizia - la vera e crudelissima natura di Bryan, che sembra quasi voler utilizzare la rabbia per i tragici accadimenti e la spinta vendicativa (verso ignoti, atteso che durante il fattaccio ha parzialmente perso la memoria e non riesce a ricordare i volti del gruppo di assassini) quali alibi per poter finalmente mostrare, anche a se stesso, la sua vera natura, totalmente permeata dal male e votata alla commissione di crimini sempre più efferati.
La sua natura luciferina lo porterà, in una spirale di sempre maggior follia, ad uccidere volontariamente od involontariamente tutte le persone che intrattengono con lui delle relazioni umane ed evaporerà soltanto con il tragico epilogo, dopo un insolito duello esilmente illuminato dalle luci appena abbozzate di una miniera.

Memorabili anche gli altri duelli presenti nel film: uno, quasi surreale, si svolge in un stalla buia, al "chiaro di sigaro" (come teorizzato da Leone - celebri le sue discussioni con Clint Eastwood, che detestava il fumo ed era disgustato dal fatto di dover tenere costantemente il sigaro fra le labbra - ancora una volta il mezzo toscano è uno dei protagonisti di spicco del western all'italiana!); l'altro, contempla una folle roulette russa (due pistole caricate a salve, con un unico colpo mortale) pretesa da un invasato pastore per avere la prova divina della colpevolezza del figlio, in procinto di essere arrestato da Daniel, che è divenuto nel frattempo sceriffo, ad evidenziare ancor più l'allargarsi della forbice tra la sua moralità, convenzionale, e la psicotica natura di Bryan.
Daniel stesso alla fine, per poter neutralizzare la dilagante follia del Nostro, dovrà rinunciare alla stella appuntata sul petto: per sconfiggere il male, è necessario avvicinarsi alla sua aura, per poi rimanerne inevitabilmente marchiati: gran finale da tragedia greca.



venerdì 20 luglio 2012

La notte dei serpenti

1969, di Giulio Petroni. Con: Luke Askew, Luigi Pistilli, Magda Konokpa, Chelo Alonso, Luciano Casamonica, Franco Balducci, Guglielmo Spoletini.

Insieme a Da uomo a uomo (il "classico" post leoniano), Tepepa (il tortilla western) e ... e per tetto un cielo di stelle (l'antesignano di Trinità) è il quarto capitolo della tetralogia dei grandi film di Giulio Petroni nell'ambito spaghetti (escludendo La vita, a volte, è molto dura, vero Provvidenza?, girato ormai in piena foga fagioli western e, purtroppo, trascurabile).
La notte dei serpenti è un ottimo film western, (seppur considerato poco riuscito da Petroni stesso che, incredibilmente, fra i suoi lavori gli preferiva il primo capitolo comicarolo di Provvidenza!), con un fantastico e biondissimo Luke Askew nei panni del pistolero (uno dei più originali comparsi sulle scene dello spaghetti western) alcolizzato, dalla mano tremula, taciturno e con i piedi perennemente infilati nei sandali: penso si tratti di un caso unico nella storia del genere, dove lo stivale l'ha sempre fatta da padrone, anche più della Colt o del Winchester!
La trama è ambientata in Messico, dove però per una volta lo zapatismo non c'entra nulla e dove, conseguentemente, il gringo di turno non è implicato in picaresche vicende pararivoluzionarie, ma, vivacchiando un trasandato ed alcolico autoesilio (per via di un tragico accadimento, disvelato a poco a poco nel corso della narrazione, con una efficace e centellinata sequenza di flash back), si trova coinvolto in una vicenda dalle tinte noir, al termine della quale riuscirà a ritrovare se stesso. Il personaggio interpretato da Luke Askew appare una volta di più come un pistolero sui generis, dedito al riscatto della sua condizione personle e non alle tipiche finalità del genere, econimiche o, al limIte, di vendetta. Condivide con i suoi "colleghi" solo le misteriorse origini e l'ancor più oscuro futuro.
Decisamente apprezzabile il commento musicale di Riz Ortolani.

mercoledì 18 luglio 2012

Per 100.000 Dollari ti ammazzo

1967, di Giovanni Fago. Con: Gianni Garko, Claudio Camaso, Fernando Sancho, Piero Lulli, Claudie Lange,  Bruno Corazzari, Susanna Martinkova.

Film "gemello" di 10.000 dollari per un massacro, con il quale condivide quasi per intero la produzione, gli sceneggiatori, il cast e le maestranze tecniche (ivi compresa Nora Orlandi, caso più unico che raro di musicista donna prestata al western all'italiana per la composizione della colonna sonora, per altro bellissima).
Cambia solo il regista. Giovanni Fago dirige – con un taglio molto elegante e francamente impeccabile
un film che, come il precedente e complementare 10.000 dollari per un massacro, sperimenta l'amalgama tra la violenza più efferata degli "spaghetti" ed uno spiccato sentimentalismo dai tratti melodrammatici, spingendo ancor di più sull'acceleratore della rappresentazione del dramma e del pessimismo, veicolata dalla fragilità dei sentimenti e dei rapporti umani ed incentrata segnatamente sulla figura del bounty killer tormentato da pene amorose e famigliari Johnny Forest (impersonato da un monumentale Gianni Garko), figura che risulta sempre più svuotata dalle connotazioni epiche, quasi mitologiche, che furono solo pochi anni prima proprie dell'archetipo dello "straniero senza nome" di Clint Eastwood.
Assolutamente all’altezza anche il "piccolo" Volonté Caludio Camaso, che interpreta la parte del “Caino” di turno in modo assolutamente convincente (ricordando in più di un occasione lo stile sublimemente sopra le righe del fratello Gian Maria).

Pregevole e spassoso, il poco più che cameo (purtroppo, aggiungerei: mi si spezza sempre il cuore, quando lo fanno crepare) dell’immarcescibile Fernando Sancho, vittima sacrificale dell'oltretombale (è il caso di dirlo, nella fattispecie...) Gianni Garko, alias Johnny Forest, nello spumeggiante incipit.
Certamente, è uno dei grandi classici del periodo aureo (e spesso "serioso") del western all'italiana.


Matalo!

1970, di Cesare Canevari. Con: Corrado Pani, Lou Castel, Antonio Salines, Luis Dávila, Claudia Gravy, Mirella Panphili, Miguel Del Castillo, Anna Maria Noé, Anna Maria Mendoza.

Western lisergico, violento il giusto e avido di dialoghi (e di comparse, visto che si svolge quasi per intero all'interno di un villaggio fantasma o nel deserto circostante). 
Si tratta di un film assolutamente unico nel genere (un altro grande esempio di cinema western utilizzato come contenitore - una delle grandi intuizioni dei cineasti addetti allo "spaghetti" - e, nel contempo, un'ulteriore dimostrazione di quanta libertà d'espressione avessero gli autori ed i registi italiani all'epoca), così come è unica la particolarissima colonna sonora di Mario Migliardi, che a tratti sembra uscita dalle corde dei Quicksilver Messenger Service o dei Grateful Dead più acidi, che viaggia di pari passo con la tecnica registica di Canevari, che fa un uso copioso, soprattutto nella seconda parte del fim, di inquadrature pirotecniche, virtuosismi di vario tipo e carrelli circolari, a sottolineare la valenza "psichedelica" della pellicola, espressa puntando tutto sul linguaggio visivo a scapito di una trama scarna e strampalata, quasi irrilevante.
Qua e là, soprattutto nelle parti notturne, non può non essere evidenziato il debito del film nei confronti del cinema horror, seppur non preminente nell'economia generale dell'opera.
Ottima la caratterizzazione dello squinternato (e un po' freak: il vestitino scollacciato e "giropassera" indossato in alcune scene da Claudia Gravy sembra essere più consono alla swinging London che non al vecchio e polveroso west!) gruppo di villans, a cui è affidato lo scettro che rappresenta il fulcro di tutta la vicenda. Su tutti, si eleva un grandissimo Corrado Pani, in quella che purtroppo rimarrà la sua unica apparizione in un film western. Per contro, è un po' anonima e piatta l'interpretazione dello svedese Lou Castel (al secolo Ulv Quarzéll - già protagonisa de I pugni in tasca di Marco Bellocchio - che ha fatto decisamente di meglio in chiave interpretativa nel genere: Quien sabe? di Damiano Damiani e Requiescant di Carlo Lizzani), nei panni dello sventurato avventuriero australiano, che ha comunque il pregio (che sia stata una cosa voluta?) di far si che lo spettatore non empatizzi troppo con il noiosissimo personaggio "buono", nonostante il (relativo) happy ending.

Due chicche: l'inizio, con Corrado Pani che, sfuocato, si avvicina al patibolo, per poi divenire perfettamente a fuoco nel momento in cui si infila i cappio al collo e il duello finale con il boomerang ed i relativi movimenti di macchina... a conti fatti, pare proprio che fumassero roba buona durante le riprese del film! 




martedì 17 luglio 2012

Ognuno per sé

1968, di Giorgio Capitani. Con: Van Heflin, Klaus Kinski, George Hilton, Gilbert Roland, Federico Boido, Sergio Doria, Sarah Ross.
Giorgio Capitani, dirigendo questo misconosciuto e (inspiegabilmente) dimenticato gioiello di celluloide, dimostra di essere un regista ricercato ed impeccabile, oltre a disvelare un particolare gusto per il dettaglio paesaggistico e naturalistico, per altro corroborato da una splendida fotografia.
La sceneggiatura di Fernando Di Leo (che ha sostenuto in alcune interviste la totale incapacità di Capitani a dirigere un western, apostrofandolo addirittura come "morto di sonno", probabilmente per il suo stile misurato, raffinato e mai sopra le righe, sostanzialmente lontano dagli stilemi dello spaghetti western) è solida e si rifà agli antenati hollywoodiani, essendo incentrata sulla caccia all'oro da parte di un gruppo raffazzonato e disorganico di avventurieri (il riferimento a Il tesoro della Sierra Madre di John Huston pare piuttosto esplicito, ed è confermato dallo stesso Capitani).


Il cast è assolutamente straordinario, a partire da un imbolsito (e ormai alcolizzato, ma super professionale sul set ed efficacissimo per il ruolo) Van Heflin, nella parte del protagonista principale, un vecchio e un po' patetico cercatore d'oro che finalmente trova un filone in una miniera, dopo anni di vani tentativi, per proseguire con l'eccellente Gilbert Roland (fisicamente, un Willy DeVille ante litteram!) nei panni di un avventuriero raffinato ed ammalato di malaria, il solito (grande) Kinski, psicoticamente al di sopra delle righe, quasi in assetto proto-herzoghiano ed un convincente George Hilton, in quella che per chi scrive rimane la sua migliore interpretazione in ambito western, nella parte del compare di Kinski, del quale è morbosamente succube e con il quale è lasciata intendere l'esistenza di un legame omosessuale (tema certamente scottante per l'epoca, tanto più in un film western - sono ancora lontani i tempi de I segreti di Brokeback Mountain - ma che, per assurdo, tornerà altre volte, seppur di striscio, fra le tematiche toccate dagli "spaghetti", vedansi Se sei vivo spara di Giulio Questi o Il grande duello di Giancarlo Santi, dimostrando una volta di più anche la valenza sperimentale e di rottura del cinema italiano di quel periodo, ma anche la grande libertà di cui godevano, in fin dei conti, registi e sceneggiatori).

Inconsueto per il genere il tratteggio psicologico dei personaggi (nel western all'italiana i profili dei protagonisti sono mediamente tagliati con l'accetta ed è rarissimo intravedere anche solo un barlume di volontà di introspezione), che si unisce ad altri aspetti della pellicola che possono essere accostati più al western classico made in USA che non a quello nostrano, come già accennato. Basti osservare, ad esempio, la dinamica delle sparatorie, non eccessive nel numero e non così cruente.
Molto bella la colonna sonora di Carlo Rustichelli, a tratti maestosa, che pur rifacendosi anch'essa ai grandi classici d'oltreoceano, assume una sua peculiarità dal retrogusto sinfonico.
Impedibili e gustosissime le interviste a Giorgio Capitani e George Hilton (due persone squisite), presenti fra i contenuti extra del dvd (edizione Koch Media, uscita per il mercato tedesco col titolo Das gold von Sam Cooper ma con l'italiano fra le lingue opzionabili), ricche di aneddoti e retroscena.

lunedì 16 luglio 2012

Django il bastardo

1969, di Sergio Garrone. Con: Anthony Steffen, Paolo Gozlino, Luciano Rossi, Rada Rassimov, Jean Louis, Fred Robsahm, Teodoro Corrà.

Western all'italiana piuttosto classico, dal taglio a tratti decisamente fumettistico per l'uso delle inquadrature e del montaggio (in particolare, l'incipit, tra le parti migliori del film), in cui le fattezze del protagonista, interpretato dal non eccessivamente espressivo italo-brasiliano Anthony Steffen (Antônio Luiz de Teffé von Hoonholtz, per l'occasione anche cosceneggiatore e produttore), si rifanno in maniera sfacciata all'Eastwood senza nome leoniano ed al Django di Corbucci, al quale ultimo scippa anche il nome, usanza piuttosto comune nel genere all'epoca - per attirare pubblico al cinema, sfruttando l'eco dei pistoleri più celebri - dato che i nomi dei personaggi non venivano registrati quali proprietà intellettuali. E per tacere di cose succedeva all'estero, dove traduzioni di titoli e doppiaggi infilavano i Django e i Sartana anche nell'insalata.
La peculiarità del film risiede nel fatto che Django è assolutamente disinteressato al denaro (ed alle donne, ma quest'ultimo è un topos) e agisce utilizzando la vendetta nei confronti dei tre ufficiali che avevano tradito lui e tutti si suoi commilitoni durante la Guerra di Secessione quale unico carburante per le sue azioni, muovendosi ed apparendo con le modalità quasi soprannaturali di un fantasma. E parlando come un fantasma: "Vengo dall'inferno e ti assicuro che non si sta affatto bene", "Ho già avuto una vita".
Notevole, come sempre, il caratterista Luciano Rossi, nella parte del fratello psicotico di Rod Murdok.
Non un capolavoro, ma godibilissimo per gli amanti del genere. 


domenica 15 luglio 2012

E Dio disse a Caino...

1970, di Antonio Margheriti. Con: Klaus Kinski, Peter Casrsten, Guido Lollobrigida, Marcella Michelangeli, Luciano Pigozzi, Antonio Cantafora.


Il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Il Signore disse: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra.”  (Genesi 4:9)
Bellissimo western dai tratti gotici e dalle tinte fosche di Antonio Margheriti, uno dei maestri del cinema di genere italiano. 
Il film, fatto salvo il soleggiatissimo ed abbagliante incipit dal sapore quasi country-blues (che mia ha fatto sovvenire le atmosfere che si respirano in Fratello, dove sei?, l'eccezionale film dei fratelli Coen), è insolitamente notturno e prende a prestito più di un elemento dal cinema horror, non a caso uno dei generi con cui si è misurato Margheriti: le campane che suonano misteriosamente ed incessantemente quale chiaro segnale di eventi nefasti, il continuo e lugubre soffiare del vento, la musica sinistra dell'organo a canne, suonata da un inquietante prete a metà strada tra l'alienato e l'allucinato, l'impiccagione alla campana della chiesa, e via dicendo.

Il film, che riesce perfettamente nel dichiarato intento di discostarsi da quelli che ormai nel 1970 possono essere considerati i canoni dello spaghetti western (in maniera analoga, seppur significativamente diversa, a quanto fece Giulio Questi con il suo meraviglioso e squinternato Se sei vivo spara), è diretto impeccabilmente (con qualche gran colpo di classe: la goccia nella pozzanghera nel cimitero indiano) e Klaus Kinski, per una volta protagonista principale di un western, è straordinario nel ruolo per lui insolito del buono. Che poi, buono si fa per dire, visto che agendo accecato dalla sete di vendetta, in pieno stile angelo sterminatore, ammazza cristiani manco fossero formiche, senza mostrare un minimo di pietas.
A latere, pare che Kinski - terrore dei registi - noto per il suo caratteraccio e le sue scenate da prima donna nel corso delle riprese, abbia trovato in Margheriti un osso durissimo e che al primo tentativo di bizza, con consueta minaccia di abbandonare il set, il regista si sia adirato a tal punto da scagliargli addosso alcuni dei fucili di scena, ottenendo l'insperato ed imprevedibile effetto di farlo diventare docile come un agnellino per tutte le riprese del film. E non solo: tra i due si instaurò  un ottimo rapporto, che permise loro di proseguire la collaborazione anche in pellicole successive. Scrive a tal proposito Edoardo Margheriti, figlio del regista:

"Klaus era un "animale" da cinema, e probabilmente voleva sentirsi "dominato" dalla persona preposta a dirigerlo. Infatti in seguito ebbe un rapporto straordinario con Antonio, lavorando in molti altri suoi film. Credo che Antonio Margheriti e Werner Herzog furono i soli due registi a creare un rapporto di superiorità, e conseguentemente di collaborazione e stima, con Klaus Kinski."
Evidente (e dichiarato dallo stesso Margheriti) l'omaggio a Orson Welles (del quale il regista era un grande estimatore) con il duello finale tra gli specchi, che cita e richiama La Signora di Shangai e Quarto potere.



sabato 14 luglio 2012

Giarrettiera Colt

1968, di Gian Rocco. Con: Nicoletta Machiavelli, Claudio Camaso, Yorgo Voyagis, Walter Barnes, Marisa Solinas, Jasper Zola.












Diciamolo subito: la bellezza abbacinante di Nicoletta Machiavelli vale da sola il prezzo del biglietto: è da bave alla bocca.
Fatta questa debita premessa, Giarrettiera Colt è davvero un film bislacco, totalmente pop (in piena sintonia con l'aria che si respirava nel periodo in cui è stato girato: peace and love) e per certi versi "trash", nella definizione più nobile del termine.

Se ne vedono di tutti i colori: cavalli cocainomani che trasmettono il vizio al padrone, la pistola della protagonista con la canna a forma di cuore (questo è un colpo di genio), spie francesi travestite da messicani, splendidi scenari marittimi (sardi) tipicamente mediterranei che c'entrano con la loaction del film (il confine tra il Messico ed il Texas) come i cavoli a merenda, nani travestiti da neonati armati fino ai denti, ballerine, sciabole e stivali da corsaro, cappelli-bomba, pappagalli parlanti, amoreggiamenti di vario tipo. Per non parlare del fatto che "Giarrettiera Colt", l'annoiata avventuriera, pistolera e giocatrice (bara) protagonista, arriva da Parigi ed è nientedimeno che la nipote della Signora delle camelie (sic!), la protagonista del romanzo di Alexandre Dumas da cui ha tratto ispirazione Giuseppe Verdi per la sua Traviata.

Insomma, un caleidoscopico minestrone, che fa venire il sospetto che regista e sceneggiatori utilizzassero droghe ben più pesanti della cocaina sniffata dall'omonimo cavallo...!
L'unico personaggio che riesce a non farsi travolgere dall'ingombrante e sensuale presenza di Nicoletta Machiavelli è Claudio Camaso il quale, nei panni del Rosso sciroccato ci regala un'istrionica interpretazione, che non sfigura affatto dinnanzi ai "grandi psicololabili" dello spaghetti western: Klaus Kinski, il fratello Gian Maria Volonté, Luciano Rossi e via folleggiando.
Bellissima, in chiave pop, la fotografia, dai colori ultrasaturi e sgargianti, che danno alle scenografie una connotazione vagamente e gioiosamente posticcia. Analogamente, è molto funzionale il montaggio, decisamente (e a volte traumaticamente) ellittico, che alleggerisce, seppur rendendolo quasi surreale, l'aspetto narrativo.


mercoledì 11 luglio 2012

Cimitero senza croci

Titolo originale: Une corde... un Colt... 1969, di Robert Hossein. Con: Robert Hossein, Michèle Mercier, Giudo Lollobrigida, Daniele Vergas, Serge Marquand, Pierre Hatet, Philippe Baronnet, Anne-Marie Balin.

Precisiamolo subito: il film è sostanzialmente francese (e questo, di per sé, non rileverebbe) e c'entra abbastanza poco con il western all'italiana, se non per la dedica finale che Robert Hossein fa al suo amico Sergio Leone, che pare abbia in parte assistito alle riprese.
La pellicola, infatti, rappresenta un caso assolutamente unico nell'ambito del western europeo: come ha splendidamente sintetizzato qualcuno, per capire di cosa stiamo parlando, basta provare ad immaginare come sarebbe stato uno spaghetti western diretto da Jean-Pierre Melville.
Cimitero senza croci, infatti, presenta tutte le caratteristiche tipiche del polar e di certa cinematografia francese: l'eroe disilluso, solitario (rectius: solo) e disincantato (Manuel, senza essere tacciati di eresia, può essere per più di un aspetto accostato, ad esempio, al samourai impersonato da Delon), le atmosfere rarefatte e l'incedere languido e a tratti ipnotico, che spesso si manifesta nell'indugiare sul particolare apparentemente irrilevante (magistrale, da questo punto vista, la sequenza della cena dei Rogers con i loro scagnozzi), i dialoghi ridotti all'osso, il tragico finale (più triste che tragico, invero, per certi versi sembra tutto già scritto ed ineluttabile sin dall'inizio), la più totale assenza di qualsivoglia forma di ironia o umorismo, altro aspetto che allontana prepotentemente il film dagli stilemi del western italiano, unitamente al fatto che qua si spara pochissimo, e quando lo si fa,  l’esplosione di colpi è un'improvvisa e repentina manifestazione di violenza che va a spezzare il ritmo lento e sinuoso della narrazione. D'altronde, Hossein stesso aveva preso parte, molti anni prima, nelle vesti di attore, a uno dei capolavori del noir/polar francese, Rififi di Jules Dassin.

Una particolare attenzione deve essere riservata alla bellissima colonna sonora composta da André Hossein, il padre di Robert, davvero particolare e fuori dagli schemi, oltre che decisamente funzionale alla poetica triste e disillusa del film.


10.000 Dollari per un massacro


1967, di Romolo Guerrieri. Con: Gianni Garko, Claudio Camaso, Fernando Sancho, Fidel Gonzàles, Loredana Nusciak, Adraiana Ambesi.



Apparentemente il più classico dei western all'italiana, visti i tanti riferimenti ai maestri del genere, a partire dal nome del protagonista, l'ennesimo Django apocrifo, qua interpretato da Gianni Garko, accreditato come Gary Hudson secondo le più ortodosse usanze esterofile dell'epoca. In realtà, la pellicola presenta una serie di peculiarità più uniche che rare, sin dall'incipit, quando troviamo il Nostro in un'insolita ambientazione marittima, a soggiacere in totale relax con il cadavere del ricercato che ha appena accoppato, prima della riscossione della taglia. Ma questo rappresenta poco più che un colore, la novità preminente della pellicola risiede nell'aver sviluppato una trama infarcita di elementi melo e romantici, che culminano simbolicamente nel pianto del bounty killer per la morte dell'amata, cose dell'altro mondo.

E anche sul versante villains, non mancano drammi di vario tipo, amorosi o famigliari. 
L'innesto funziona alla perfezione, anche grazie alla regia di Romolo Guerrieri, misurata e del tutto funzionale alle intenzioni.
Degna di nota la colononna sonora di Nora Olrandi, l'unica compositrice appartenente al gentil sesso cimentatasi a musicare le vicende dei rozzi e polverosi spaghetti cowboys.
Ha un film "gemello", il coevo e altrettanto notevole (e forse addirittura migliore) Per 100.000 Dollari ti ammazzo, di Giovanni Fago.

... e per tetto un cielo di stelle

1968, di Giulio Petroni. Con: Giuliano Gemma, Mario Adorf, Magda Konokpa, Federico Boido, Julie Ménard, Sandro Dori, Anthony Dawson.

Giulio Petroni è un regista dotato di gran classe, e lo si capisce fin da subito, dalla splendida e sanguinosissima ouverture del film, che culmina nella meravigliosa – e per me poetica – scena in cui Gemma ed Adorf, senza proferire verbo, si incontrano e si improvvisano becchini.
Ciò detto, è d’uopo rimarcare che il film è senza dubbio stato uno dei primi (se non il primo) a mescolare toni più consoni alla commedia con gli stilemi più canonici (e “seriosi” – anche se spesso ironici – e violenti) dello spaghetti western delle origini, e non penso di essere eretico nell’affermare che la ben assortita coppia Gemma-Adorf abbia rappresentato qualcosa in più che una vaga ispirazione per la nascita dell’assai più celebre duo Bud Spencer/Terence Hill, che sarebbe esploso da lì ad un paio d’anni con il celeberrimo Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni.
Qualcosa di simile si era già forse intravisto con il Gemma/Ringo di Duccio Tessari, ma in quel caso eravamo più dinnanzi a toni scanzonai e "leggeri", non ad abbozzi di comicità tout court.
Premesso che le parti più comiche sono ottime e divertenti, e che, come ho detto, quelle più violente e dai toni più cupi sono assolutamente perfette, forse l’unico difetto del film, è la mancanza di un perfetto raccordo tra i registri diversi, tra la scazzottata acrobatica o i dialoghi brillanti ed i morti (cruentemente) ammazzati (qua i cattivi sono cattivi veri, e anche ben caratterizzati, non parodie di villains a totale servizio della commedia)
. Che poi, a ben vedere, non è necessariamente un difetto, fa parte del gioco anche l'intento di spiazzare lo spettatore con proposte fuori dagli schemi, intento che, in questo caso, è perfettamente riuscito, a differenza di quanto per contro avverrà negli anni a seguire con la deriva comicarola post Trinità dei c.d. fagioli western.
Giuliano Gemma e Mario Adorf

1.000 Dollari sul nero


1966, di Alberto Cardone. Con: Anthony Steffen, Gianni Garko, Erika Blanc, Franco Fantasia, Sieghardt Rupp, Angelica Ott, Daniela Igliozzi.



Film nerissimo, di ispirazione biblica - come testimonia anche la citazione finale dal Levitico - dal titolo geniale: mille dollari rappresentano il valore della collana che indossa la madre dei due protagonisti, perennemente vestita in nero. L'idea verrà poi replicata da Cardone medesimo con Sette dollari sul rosso dello stesso anno.
Per la prima volta appare il personaggio di Sartana, già qui interpretato da (un notevole) Gianni Garko, che fa il pazzoide manco fosse Kinski (a cui assomiglia anche fisicamente, per l'occasione) e che "lascia ai blocchi" l'altro protagonista, Anthony Steffen (al secolo Antônio Luiz de Teffé von Hoonholtz), bravino ma un po' legnoso. Sartana, tuttavia, è totalmente disallineato con il personaggio che diverrà poi il protagonista della  fortunata serie: qua, infatti, egli è dipinto come un folle, luciferino e sanguinario, che utilizza come rifugio un tempio precolombiano e bacia un medaglione prima di accoppare qualcuno. E di gente, con la sua ammazzacristiani, ne sforacchia parecchia.

Da notare, la copiosa presenza di personaggi femminili (almeno quattro quelli rilevanti ai fini della storia), solitamente assenti o molto marginali nei western all'italiana, a fare da collante e da propulsore a questa libera trasposizione tra polvere e pistole della vicenda di Caino e Abele.
Fondamentalmente, un western di un pessimismo estremo, dove l'idea del male - vincente sul bene - presente in ogni essere umano, domina la pellicola dall'inizio alla fine.
Il finale, nonostante a morire sia "Caino", è di un'amarezza infinita.


martedì 10 luglio 2012

Se incontri Sartana prega per la tua morte

1968, di Gianfranco Parolini. Con: Gianni Garko, William Berger, Klaus Kinski, Fernando Sancho, Andrea Scotti, Sal Borghese, Sydney Chaplin, Heidi Fischer, Maria Pia Conte.

Primo capitolo della serie di Sartana, è l'unico diretto da Gianfranco Parolini il quale, una volta passato il testimone del qui presente becchino a Giuliano Carnimeo, si cimentò con gli epigoni Sabata (Lee Van Cleef) e Indio Black (Yul Brynner). 
Il film è un fumettone pirotecnico, dal bodycount astrale, che manco può definirsi manicheo, dato che... i buoni non esistono! È un "tutti contro tutti" dove il più sano ha la rogna, in un gioco al massacro ed al colpo più basso in cui l'unico punto di riferimento sembra essere il faro lucente del sempiterno oro, vero e unico motore della vicenda. 
A raccontarla così sembrerebbe una pellicola cupissima, roba da far sembrare Bergman uno scanzonato circense. In realtà, il film è divertimento puro, in pieno stile fumettistico, costantemente permeato da quel sottile umorismo, a volte nero, tipico degli spaghetti, forse qua portato alle estreme conseguenze.
Gli elementi distintivi di Sartana, il gambler becchino debitore di James Bond, ci sono già tutti, anche dal punto di vista dello stile registico: si veda, ad esempio, l'utilizzo della camera a mano nelle parti d'azione, che sarà poi ripresa in modo massiccio da Carnimeo.
Il cast è stellare, da bave alla bocca per gli appassionati dello spaghetti western : oltre a Gianni Garko, uno dei più validi discendenti di sua maestà Clint Eastwood, è un concentrato di notabili del genere: uno stratosferico William Berger, Klaus Kinski (in quello che, purtroppo, è poco più di un cameo), Fernando Sancho, oltre ai soliti caratteristi "minori" come Sal Borghese.
Parolini si prende anche il lusso di citare (o scopiazzare? In confine è labile, ai posteri l'ardua sentenza) Per un pugno di dollari, con l'idea della placca dorata sotto il cappello di Sartana a fare da scudo in difesa dei colpi di Lasky, che mira sempre alla fronte...
Pregevolissima la colonna sonora del grande Piero Piccioni, che gioca a spruzzare qua e là gocce di swing (e dintorni) nelle more del suo commento musicale.