domenica 31 marzo 2013

Il prezzo del potere


1969, di Tonino Valerii. Con: Giuliano Gemma, Fernando Rey, Antonio Casas, Benito Stefanelli, Van Johnson, Warren Vanders, Ray Suanders, Maria Cuandra.



Ridete pure amici, c'è bisogno di gente allegra come voi all'inferno.
Curiosa e coraggiosa rivisitazione in chiave western di un episodio all'epoca più che attuale e marcatamente politico, ovvero l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, consumato solo quattro anni prima della realizzazione del film. Penso che sia uno dei primi (se non il primo) tentativo di portare al cinema un episodio ancora freschissimo e certamente troppo spinoso e doloroso per gli americani (non è un caso che i registi a stelle e strisce ci abbiano messo ancora un bel po' a trasporre l'episodio su celluloide), di sicuro è stato il primo film a ipotizzare tesi complottiste e discordanti dalla versione ufficiale degli accadimenti. A latere, è esistito veramente un presidente degli USA di nome Garfield, il quale è stato effettivamente colpito da una pistolettata a soli quattro mesi dall'elezione, il 2 luglio 1881 (morì poi il 19 settembre, dopo una lunga agonia), ma nel New Jersey e non a Dallas.
Il film, tuttavia, è riuscito solo a metà. Se dalla sua ha una produzione ambiziosa e una confezione di pregio, grazie alla fotografia calibrata di Stelvio Massi ed alla regia inappuntabile di Valerii, dall'altra ha uno dei suoi limiti proprio in Giuliano Gemma, a mio avviso troppo gigione ed istrionico (troppo "Ringo" verrebbe da dire) per ricoprire il ruolo del protagonista e una trama inevitabilmente intricata e a tratti un po' troppo farraginosa nel cercare il collante tra le tematiche tipiche del western italiano (la vendetta in primis) e i contenuti di denuncia.
Anche la colonna sonora di un Bacalov non particolarmente ispirato, che pare aver messo il pilota automatico sulla rotta "musica da spaghetto", non aiuta a far decollare il film che comunque, a scanso di equivoci, resta una piacevole visione, pur non erigendosi al livello degli altri lavori di Valerii, decisamente più incisivi.
Nota di merito per Fernando Rey, che a mio avviso spicca fra i componenti del cast, azzeccando in pieno i toni del personaggio del banchiere lobbista.








mercoledì 30 gennaio 2013

Quella sporca storia nel west

1968, di Enzo G. Castellari. Con: Andrea Giordana, Gilbert Roland, Horst Frank, Françoise Prévost, Ennio Girolami, Ignazio Spalla, Manuel Serrano, Gabriella Grimaldi, Stefania Careddu, Giorgio Sammartino.


Bislacca trasposizione in ambito western dell’Amleto shakespeariano. Ma a differenza di quanto avvenuto in altre circostanze - penso a Dove si spara di più di Gianni Puccini, dove i riferimenti a Romeo e Giuletta erano appena accennati, pur se lapalissiani - nel caso di specie l’intenzione di ricalcare la celebre opera teatrale appare sin troppo zelante verso la fedeltà al testo di riferimento. 
La regia di Castellari (inizialmente il progetto doveva essere seguito da Sergio Corbucci), come al solito, è ondivaga ed altalenante, tra guizzi qualitativamente rimarcabili e capitomboli quasi imbarazzanti. Così, se da un lato ci sono sequenze davvero efficaci, che spesso si rifanno a certe atmosfere del cinema gotico italiano di quegli anni (l’onirico incipit, le scene ambientate nel cimitero sotterraneo, la crocifissione) o all'aria pop che respirava in quel periodo (la bizzarra compagnia teatrale, il covo di Santana), per contro troviamo momenti che girano decisamente a vuoto (l’insensata ed interminabile scazzottata al mulino) o imperdonabili buchi nella sceneggiatura (come diavolo ha fatto Françoise Prévost ad allontanarsi indisturbata a cavallo se la magione era circondata e bombardata dal fuoco del bandolero messicano Santana e dei suoi sgherri?).
Unico altro spaghetto (unitamente a El desperado) di Andrea Giordana da protagonista - che a mio avviso aveva la faccia giusta e poteva aver maggior fortuna nel genere nei panni del pistolero con le caratteristiche di quelli lanciati da Franco Nero e Clint Eastwood – che si difende benino, con una rassicurante spalla d’eccezione, Gilbert Roland nel ruolo di Horace, ed un onesto Horst Frank a ricoprire il ruolo dello zio-villain.
Artigianale ma ingegnoso il sistema ideato da Castellari (altro che post produzioni digitali!) per ricreare l’effetto del cadavere di Ofelia sotto l’acqua, utilizzando un panno nero ed un ventilatore per far muovere i capelli per girare l'immagine, poi sovrapposta a quella del ruscello.
Bellissimi gli esterni spagnoli (alcune riprese, invece, come quella del casolare vicino al ruscello, sono state effettuate nei pressi di Roma) girati fra le le rocce a fungo e di tutto rispetto la colonna sonora di Alessandro Alessandroni (un grande) e Francesco De Masi.







martedì 29 gennaio 2013

Django unchained


2012, di Quentin Tarantino. Con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Don Johnson, Dennis Christopher, Walton Goggins, Franco Nero.

Lo so. Non è uno spaghetti western: è fuori tempo massimo, è stato girato in altri luoghi ed in altri contesti, ma è anche vero che è un film che non può passare inosservato agli amanti del genere, visto e considerato che il suo autore è uno dei suoi più celebri sponsor e finalmente ha deciso di raffrontarsi con polvere, colt e speroni.
Cominciamo subito col dire che, paradossalmente, le citazioni dagli spaghetti western non sono così abbondanti come uno avrebbe potuto aspettarsi. O, meglio, lo sono ma in misura non superiore rispetto ad altri film (Kill Bill su tutti). Le più evidenti (ne dimentico sicuramente qualcuna): i titoli di testa, il fazzoletto rosso e gli incappucciati da Django (quest'ultima, scena esilarante, mette in ridicolo come nessuno mai il KKK, a cui si richiama in tutta evidenza), le scene tra la neve da Il grande silenzio, le frustate di Django al suo ex aguzzino da Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro, il cavallo senza sella da Navajo Joe, il colpo di pistola nel fiore all'occhiello da Il mercenario, il legame maestro-allievo da I giorni dell'ira, il velato rapporto incestuoso tra fratello e sorella da Johnny Yuma, oltre alla varie esplosioni dinamitarde di leoniana memoria e la fanghiglia di rito. Per non tacer del fatto che uno dei protagonisti fa di mestiere il bounty killer, una delle figure che più hanno caratterizzato l'intero western nostrano.
Ma più che nel giochino della citazione (che comunque per un amante del genere come il sottoscritto è divertimento puro), il film mi è sembrato nel suo complesso uno spaghetto "intrinsecamente". Se scremato da alcuni elementi di abbellimento tipicamente tarantiniani, la trama avrebbe potuto tranquillamente essere una di quelle un po' strampalate uscite dalla genialità perversa di certi autori del western all'italiana. Una delle intuizioni principali dello spaghetti fu proprio quella di utilizzare il western come genere-contenitore (all'epoca si spaziò dall'Amleto colt-munito di Quella sporca storia nel west allo spionaggio puro di Quel caldo maledetto giorno di fuoco al bondismo dei vari episodi di Sartana, al western contaminato da venature horror di E Dio disse a Caino e via discorrendo). Nel caso di specie Tarantino utilizza il grande contenitore western per fare il più politico dei suoi film (me ne dispiaccio nel dirlo, ma Spike Lee si è dimostrato un emerito imbecille), un po' alla maniera dei tortilla, che utilizzavano il western quale vettore di un messaggio politico terzomondista. Tarantino lo fa alla sua maniera tutt'altro che misurata ed ortodossa, erigendo lo sberleffo ad arma micidiale e ritagliando le vicende riguardanti lo schiavismo attorno a quella che è la più grande e potente storia d'amore - legata al doppio filo della vendetta più efferata e catartica - messa in scena da Quentin nella sua carriera dopo quella, analoga, d'amore materno di Kill Bill.
Bella come sempre la colonna sonora, sempre in bilico tra citazionismo (I giorni dell'ira, Lo chiamavano Trinità sul finale, con tanto di balletto del cavallo) ed altro (io mi sono gasato tantissimo quando è partita Freedom di Richie Havens).
Il cast è ineccepibile, tutti bravissimi (anche Jamie Foxx, che magari brilla un po' meno degli altri, ma d'altronde la concorrenza era durissima), compreso Quentin che hitchcockianamente fa il suo bel cameo e poi si fa fare una fine di merda.
Poi, potrei star qua a blaterare a lungo su molti altri aspetti del film, come i vari cambi di registro (per certi aspetti è forse il film con le scene più esplicitamente comiche del regista - penso al vestito da valletto di Django - ma anche la pellicola in cui Tarantino utilizza la violenza - mi riferisco ad un paio di scene in particolare - in maniera meno esplicita visivamente ma più disturbante a livello emotivo), ma penso di essermi dilungato fin troppo, è ora di andare a vedere il film in lingua originale.
Ah: no, non l'ho trovato troppo lungo.