giovedì 21 febbraio 2019

Arizona si scatenò... e li fece fuori tutti

1970 di Sergio Martino. Con: Anthony Steffen, Roberto Camardiel, Rosalba Neri, Marcella Michelangeli, Aldo Sambrell, Emilio Delle Piane.




Tra le primissime prove dietro la macchina da presa di Sergio Martino (che dopo la magnifica infilata di gialli tornerà tardivo sul western, con il non memorabile "Mannaja"), questa sorta di reboot dell'Arizona Colt di Michele Lupo mette subito in evidenza il talento del regista romano, che seppur dinnanzi ad un canovaccio già visto e rivisto riesce mettere in scena un western fluido, con un buon ritmo e una bella dosa di violenza. Certo il debito verso Leone a volte è fin troppo evidente (Anthony Steffen è clintiano fino al midollo e Aldo Sombrell, già presente come comprimario nella trilogia del Dollaro, cerca di rifarsi a Ramon e all'Indio, pur senza possedere la prorompente presenza scenica che dà ai personaggi di Volonté quella vena psicotica che qua un po' manca al villain.  



Assolutamente azzeccato il personaggio di Doppio Whiskey, interpretato col giusto piglio dal grande caratterista Roberto Camardiel, un po' meno la colonna sonora di Bruno Nicolai, che questa volta la fa parzialmente fuori dal vaso: il motivetto portante del commento musicale, che apre la pellicola e torna a più riprese nell'arco della narrazione è fin troppo allegro e spensierato (e, diciamolo, bruttino) e mal si sposa con il mood del film, che pure non manca - tra un ammazzamento ed una tortura - di alcuni momenti più leggeri ed ironici ed alcuni dialoghi davvero brillanti.
Trova anche spazio un inconsueta - inconsueta per la natura burbera del protagonista - storia d'amore, un po' inverosimile nella genesi ma funzionale diegeticamente nell'ottica della super carneficina vendicativa che allieta il finale del film.
 


martedì 20 maggio 2014

Il mio nome è Shangai Joe

1973, di Mario Caiano. Con: Chen Lee, Klaus Kinski, Gordon Mitchell, Robert Hundar (Claudio Undari), Giacomo Rossi-Stuart, Piero Lulli, Katsutoshi Mikuriya, Carla Mancini, Carla Romanelli.



L’accoppiamento al limite dell’incestuoso tra lo spaghetti western (ormai sul viale del tramonto) ed il kung fu movie (nel suo periodo di maggior fulgore, sulla scia del successo planetario di Bruce Lee) in linea teorica avrebbe potuto generare un mostro a tre teste, uno Z movie della peggior specie della serie “Godzilla e Maciste contro Zorro e Goldrake”. Invece, questo bislacco esperimento è riuscito in pieno, restituendo anzi allo spaghetto un’iniezione di linfa vitale al di fuori della deriva fagiolesca e comicarola. Il film è infatti violentissimo e privo di venature comiche, con alcune scene decisamente splatter, ben oltre lo standard del western all'italiana. Basti pensare all’occhio cavato col colpo di kung fu (che ricorda tanto l’omologa sequenza del Kill Bill tarantiniano), lo scalpo recapitato a mezzo posta, il braccio mozzato ed il colpo finale (lascio il gusto di scoprire di cosa di tratta con la visione del film…), che è un po’ la ciliegina su una torta farcita di sangue. E se da un lato la regia di Caiano (comunque ottima nel complesso, così come la fotografia di Guglielmo Mancori e la colonna sonora di Bruno Nicolai) eccede in alcuni momenti, enfatizzando le scene d’azione e pirotecniche con un montaggio un po’ affannoso che cerca di colmare le lacune di budget e la conseguente pochezza degli effetti speciali - rasentando il labile confine con il comico involontario - dall'altro il tratteggiamento fumettistico dei quattro sicari inviati dall'antagonista Spencer (uno spregiudicato signorotto locale dedito al commercio di peones messicani come schiavi, interpretato da Piero Lulli) per far fuori il nostro paladino sono da culto totale ed immediato. I loro nomi sono già tutto un programma: Pedro il Cannibale (il grande Robert Hundar, alias Claudio Undari) - non si dice molto di lui, ma non ci vuole Sherlock Holmes per capire che si tratti di un Hannibal Lecter ante litteram - Sam il Becchino (Gordon Mitchell), che ha il vezzo di seppellire le sue vittime ancora vive, Tricky, l’immancabile gambler (Giacomo Rossi-Stuart, padre del più celebre Kim) e, dulcis in fundo, Scalper Jack, impersonato dall'immenso ed immarcescibile Klaus Kinski con in dosso un buffo cappello che gli accentua le orecchie a sventola, che se ne  va a zonzo per il Texas con una serie completa di coltelli di varia dimensione infilata nella fodera interna della giacca: d'altronde la precisione è irrinunciabile, se il fine è ottenere uno scalpo fatto a regola d’arte, soprattutto quando serve ad impreziosire la propria collezione privata di bambole.

Il protagonista, Chen Lee (che poi nella  realtà non si chiamava così, ma la tentazione dell’assonanza con il nome della super star del kung fu movie, Bruce, è stata troppo forte, e per altro non era neppure cinese ma giapponese) non è un attore professionista ed è stato reclutato essenzialmente per la sua abilità con le arti marziali. Ma a suo modo funziona, anche grazie al doppiaggio di Ferruccio Amendola che in alcune sequenze lo fa sembrare la controfigura orientale del Dustin Hoffman di quegli anni (grazie ad una vaga somiglianza tra i due). Certo, non dà il meglio di sé nelle scene d’amore (in tutto questo trambusto, gli sceneggiatori hanno trovato il tempo di infilare anche una sottotrama sentimentale tra l’aspirante cowboy dagli occhi a mandorla e la figlia di uno dei peones messicani salvati da Shangai Joe).

Il duello finale non poteva che essere di sole arti marziali, e così è stato: il perfido Spencer, preso atto della disfatta dei quattro sgherri, fatti fuori uno ad uno da Shangai Joe, si affida a Mikuja, temibile esperto di arti marziali allievo dello stesso maestro del Nostro. I due hanno pure il medesimo simbolo rosso tatuato sull’avambraccio.
Finale in pieno stile spaghetti, con il cowboy (?) che abbandona l’amata e parte verso lidi sconosciuti alla ricerca della sua dimensione.
A latere, è curioso evidenziare che, seppur di grana grossissima, il film presenta una esplicita e feroce critica al razzismo ed al capitalismo a stelle e strisce (evidentemente mutuata dai tortilla western), un elemento che aggiunge ulteriore carne al fuoco di questo caleidoscopico esperimento cinematografico pur senza alternarne – incredibilmente – l’equilibrio.


venerdì 16 maggio 2014

Preparati la bara!

1968, di Ferdinando Baldi. Con: Terence Hill, Horst Frank, George Easrtman (Luigi Montefiori), José Torres, Pinuccio Ardia, Luciano Rossi.




In pratica è il prequel del Django corbucciano, ed è pure ammantato da una parziale aura di “ufficialità” (se rapportato al mare di Django apocrifi che hanno popolato il mondo degli spaghetti), considerato che lo sceneggiatore (Franco Rossetti) e il direttore della fotografia (Enzo Barboni, al suo ultimo lavoro in tale ambito prima del passaggio alla regia) sono gli stessi ed inizialmente il protagonista doveva essere proprio Franco Nero, che ha poi desistito a causa di impegni assunti su altri set. 
Ad ogni modo, è certamente fra i migliori django-derivati mai prodotti, anche se la regia di Baldi, pur ineccepibile e non priva di soluzioni pregevoli, non riesce a raggiungere il livello del fuoriclasse Corbucci.
Terence Hill – qua all'apice del suo ruolo di rincalzo di Franco Nero, qualità che gli è valsa il biglietto di ingresso nel mondo del western all'italiana – è certamente molto efficace e convincente nell'impersonificazione del sulfureo protagonista nerovestito, anche se in filigrana dietro quello sguardo di ghiaccio si percepisce la sua natura bonaria e perennemente canzonatoria, che potrà poi manifestarsi in tutta la sua magnificenza con Trinità e Nessuno. Ciò per dire che le occhiatacce più cupe e tenebrose di Franco Nero avrebbero impreziosito l’atmosfera di un sapore ancora  più gotico e lugubre. Il film resta comunque violentissimo, dal body count estremo (anche grazie alla pioggia di piombo finale, lascio immaginare cosa estragga Django dalla bara alla resa conti…) e certamente di un pessimismo strisciante, visto e considerato che oltre alla pletora di personaggi stecchiti, il tradimento è il  sentimento dominante e alla fin fine non si salva proprio nessuno, neppure il protagonista, già morto nel cuore (lui stesso si prepara la lapide nell’incipit, dopo l'uccisione della moglie) e mosso ormai soltanto dalla sete di vendetta.
Ottimo il parterre dei villain, guidati dal sempre efficace Horst Frank (una sorta di Kinski meno istrione e più disciplinato) e dal gigantesco (letteralmente) George Eastman (alias Luigi Montefiori: ve lo ricordate Sefano Bertoni in Regalo di Natale di Pupi Avati?).
Ennesimo timbro sul cartellino della premiata ditta spaghetti western per il quasi sempre presente (e grande) Luciano Rossi, questa volta nell'insolito ruolo del sano di mente e non del consueto violento psicopatico.
Musiche buone di un non addetto al genere, Gian Franco Reverberi. La canzone che spadroneggia nel finale You' d better smile è cantata da Nicola di Bari.








martedì 13 maggio 2014

Ciakmull - L'uomo della vendetta

1970, di Enzo Barboni. Con: Leonard Mann, Pietro Martellanza, Luigi Montefiori, Woody Strode,
Helmuth Schneider, Ida Galli, Alain Naya, Luciano Rossi.

Esordio alla regia di Enzo Barboni (noto alle cronache del tempo come E.B. Clucher), già ottimo direttore della fotografia in alcuni western italiani, su soggetto del co-creatore di Django (nonché regista di El desperado) Fanco Rossetti.
Precisiamolo subito: la storia è seria, con morti ammazzati e drammatici risvolti psicoanalitici. Pur tuttavia, l’indole “caciarona”  di Barboni (descritto dai più come persona simpaticissima, sempre incline alla battuta e costantemente alla ricerca del risvolto comico delle situazioni, anche in ambito professionale), quella che da lì a pochissimo avrebbe fatto la sua fortuna, grazie alla creazione di Trinità e del filone fagioli-western, è già intuibile in filigrana in questa pellicola.
C’è una scena, in particolare (che infatti stona non poco con la linea diegetica del film), in cui c’è concentrato in pillole tutto, ma proprio tutto il nocciolo duro della “poetica” di quello che sarà poi il suo cavallo vincente, cavalcato in pompa magna da Bud Spencer e Terence Hill. Si tratta della sequenza girata nel saloon. Nell'arco di pochi minuti assistiamo, nell’ordine a: 
1) una mega scorpacciata di fagioli; 
2) una pirotecnica partita a poker con mazziere funambolico; 
3) una super scazzottata in odor di slapstick comedy dall'esito letale per i "cattivi" (tra cui, il sempre presente Luciano Rossi).
“Trinitismo” in nuce a parte, il film ha un robusto pregio nella sceneggiatura, che scorre via con un buon ritmo e si basa sulla storia piuttosto originale di un velocissimo pistolero che ha perso la memoria e si ritrova misteriosamente rinchiuso in un manicomio criminale, e un difetto nella regia fin troppo accademica e un po' piatta (forse proprio perché non era il tipo di western adatto a Barboni, più incline al baracconesco) e nella recitazione non certo perforante del protagonista, il belloccio ma anonimo americano Leonard Mann, coadiuvato da un gruppo di comprimari che paiono uno il clone dell’altro (Pietro Martellanza e Luigi Montefiori, alias Peter Martell, e George Eastmann), con l’eccezione dell’ottimo ed erculeo Woody Strode.
Come accennato, la parte più interessante della pellicola risiede nello sviluppo della vicenda cucita addosso al protagonista senza memoria ed ai suoi tre compari di sventura che, dopo una prima parte di film itinerante e picaresca (la fuga dal manicomio, il viaggio verso il paese di provenienza alla ricerca delle origini e della memoria perduta, ma anche del consueto motore dello spaghetto: l’oro), risolve in tragedia, colma di risvolti psicoanalitici (il rapporto col padre e col fratello), con il finale per certi versi irrisolto (la domanda cruciale rimarrà senza una risposta certa), corroborato dal topos del pistolero che, ormai solo (nel caso di specie, poi, non solo noi, ma neanche lui sa da dove viene con esattezza!), si allontana verso lidi sconosciuti.
Degnissima colonna sonora di Riz Ortolani.

domenica 31 marzo 2013

Il prezzo del potere


1969, di Tonino Valerii. Con: Giuliano Gemma, Fernando Rey, Antonio Casas, Benito Stefanelli, Van Johnson, Warren Vanders, Ray Suanders, Maria Cuandra.



Ridete pure amici, c'è bisogno di gente allegra come voi all'inferno.
Curiosa e coraggiosa rivisitazione in chiave western di un episodio all'epoca più che attuale e marcatamente politico, ovvero l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, consumato solo quattro anni prima della realizzazione del film. Penso che sia uno dei primi (se non il primo) tentativo di portare al cinema un episodio ancora freschissimo e certamente troppo spinoso e doloroso per gli americani (non è un caso che i registi a stelle e strisce ci abbiano messo ancora un bel po' a trasporre l'episodio su celluloide), di sicuro è stato il primo film a ipotizzare tesi complottiste e discordanti dalla versione ufficiale degli accadimenti. A latere, è esistito veramente un presidente degli USA di nome Garfield, il quale è stato effettivamente colpito da una pistolettata a soli quattro mesi dall'elezione, il 2 luglio 1881 (morì poi il 19 settembre, dopo una lunga agonia), ma nel New Jersey e non a Dallas.
Il film, tuttavia, è riuscito solo a metà. Se dalla sua ha una produzione ambiziosa e una confezione di pregio, grazie alla fotografia calibrata di Stelvio Massi ed alla regia inappuntabile di Valerii, dall'altra ha uno dei suoi limiti proprio in Giuliano Gemma, a mio avviso troppo gigione ed istrionico (troppo "Ringo" verrebbe da dire) per ricoprire il ruolo del protagonista e una trama inevitabilmente intricata e a tratti un po' troppo farraginosa nel cercare il collante tra le tematiche tipiche del western italiano (la vendetta in primis) e i contenuti di denuncia.
Anche la colonna sonora di un Bacalov non particolarmente ispirato, che pare aver messo il pilota automatico sulla rotta "musica da spaghetto", non aiuta a far decollare il film che comunque, a scanso di equivoci, resta una piacevole visione, pur non erigendosi al livello degli altri lavori di Valerii, decisamente più incisivi.
Nota di merito per Fernando Rey, che a mio avviso spicca fra i componenti del cast, azzeccando in pieno i toni del personaggio del banchiere lobbista.








mercoledì 30 gennaio 2013

Quella sporca storia nel west

1968, di Enzo G. Castellari. Con: Andrea Giordana, Gilbert Roland, Horst Frank, Françoise Prévost, Ennio Girolami, Ignazio Spalla, Manuel Serrano, Gabriella Grimaldi, Stefania Careddu, Giorgio Sammartino.


Bislacca trasposizione in ambito western dell’Amleto shakespeariano. Ma a differenza di quanto avvenuto in altre circostanze - penso a Dove si spara di più di Gianni Puccini, dove i riferimenti a Romeo e Giuletta erano appena accennati, pur se lapalissiani - nel caso di specie l’intenzione di ricalcare la celebre opera teatrale appare sin troppo zelante verso la fedeltà al testo di riferimento. 
La regia di Castellari (inizialmente il progetto doveva essere seguito da Sergio Corbucci), come al solito, è ondivaga ed altalenante, tra guizzi qualitativamente rimarcabili e capitomboli quasi imbarazzanti. Così, se da un lato ci sono sequenze davvero efficaci, che spesso si rifanno a certe atmosfere del cinema gotico italiano di quegli anni (l’onirico incipit, le scene ambientate nel cimitero sotterraneo, la crocifissione) o all'aria pop che respirava in quel periodo (la bizzarra compagnia teatrale, il covo di Santana), per contro troviamo momenti che girano decisamente a vuoto (l’insensata ed interminabile scazzottata al mulino) o imperdonabili buchi nella sceneggiatura (come diavolo ha fatto Françoise Prévost ad allontanarsi indisturbata a cavallo se la magione era circondata e bombardata dal fuoco del bandolero messicano Santana e dei suoi sgherri?).
Unico altro spaghetto (unitamente a El desperado) di Andrea Giordana da protagonista - che a mio avviso aveva la faccia giusta e poteva aver maggior fortuna nel genere nei panni del pistolero con le caratteristiche di quelli lanciati da Franco Nero e Clint Eastwood – che si difende benino, con una rassicurante spalla d’eccezione, Gilbert Roland nel ruolo di Horace, ed un onesto Horst Frank a ricoprire il ruolo dello zio-villain.
Artigianale ma ingegnoso il sistema ideato da Castellari (altro che post produzioni digitali!) per ricreare l’effetto del cadavere di Ofelia sotto l’acqua, utilizzando un panno nero ed un ventilatore per far muovere i capelli per girare l'immagine, poi sovrapposta a quella del ruscello.
Bellissimi gli esterni spagnoli (alcune riprese, invece, come quella del casolare vicino al ruscello, sono state effettuate nei pressi di Roma) girati fra le le rocce a fungo e di tutto rispetto la colonna sonora di Alessandro Alessandroni (un grande) e Francesco De Masi.







martedì 29 gennaio 2013

Django unchained


2012, di Quentin Tarantino. Con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Don Johnson, Dennis Christopher, Walton Goggins, Franco Nero.

Lo so. Non è uno spaghetti western: è fuori tempo massimo, è stato girato in altri luoghi ed in altri contesti, ma è anche vero che è un film che non può passare inosservato agli amanti del genere, visto e considerato che il suo autore è uno dei suoi più celebri sponsor e finalmente ha deciso di raffrontarsi con polvere, colt e speroni.
Cominciamo subito col dire che, paradossalmente, le citazioni dagli spaghetti western non sono così abbondanti come uno avrebbe potuto aspettarsi. O, meglio, lo sono ma in misura non superiore rispetto ad altri film (Kill Bill su tutti). Le più evidenti (ne dimentico sicuramente qualcuna): i titoli di testa, il fazzoletto rosso e gli incappucciati da Django (quest'ultima, scena esilarante, mette in ridicolo come nessuno mai il KKK, a cui si richiama in tutta evidenza), le scene tra la neve da Il grande silenzio, le frustate di Django al suo ex aguzzino da Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro, il cavallo senza sella da Navajo Joe, il colpo di pistola nel fiore all'occhiello da Il mercenario, il legame maestro-allievo da I giorni dell'ira, il velato rapporto incestuoso tra fratello e sorella da Johnny Yuma, oltre alla varie esplosioni dinamitarde di leoniana memoria e la fanghiglia di rito. Per non tacer del fatto che uno dei protagonisti fa di mestiere il bounty killer, una delle figure che più hanno caratterizzato l'intero western nostrano.
Ma più che nel giochino della citazione (che comunque per un amante del genere come il sottoscritto è divertimento puro), il film mi è sembrato nel suo complesso uno spaghetto "intrinsecamente". Se scremato da alcuni elementi di abbellimento tipicamente tarantiniani, la trama avrebbe potuto tranquillamente essere una di quelle un po' strampalate uscite dalla genialità perversa di certi autori del western all'italiana. Una delle intuizioni principali dello spaghetti fu proprio quella di utilizzare il western come genere-contenitore (all'epoca si spaziò dall'Amleto colt-munito di Quella sporca storia nel west allo spionaggio puro di Quel caldo maledetto giorno di fuoco al bondismo dei vari episodi di Sartana, al western contaminato da venature horror di E Dio disse a Caino e via discorrendo). Nel caso di specie Tarantino utilizza il grande contenitore western per fare il più politico dei suoi film (me ne dispiaccio nel dirlo, ma Spike Lee si è dimostrato un emerito imbecille), un po' alla maniera dei tortilla, che utilizzavano il western quale vettore di un messaggio politico terzomondista. Tarantino lo fa alla sua maniera tutt'altro che misurata ed ortodossa, erigendo lo sberleffo ad arma micidiale e ritagliando le vicende riguardanti lo schiavismo attorno a quella che è la più grande e potente storia d'amore - legata al doppio filo della vendetta più efferata e catartica - messa in scena da Quentin nella sua carriera dopo quella, analoga, d'amore materno di Kill Bill.
Bella come sempre la colonna sonora, sempre in bilico tra citazionismo (I giorni dell'ira, Lo chiamavano Trinità sul finale, con tanto di balletto del cavallo) ed altro (io mi sono gasato tantissimo quando è partita Freedom di Richie Havens).
Il cast è ineccepibile, tutti bravissimi (anche Jamie Foxx, che magari brilla un po' meno degli altri, ma d'altronde la concorrenza era durissima), compreso Quentin che hitchcockianamente fa il suo bel cameo e poi si fa fare una fine di merda.
Poi, potrei star qua a blaterare a lungo su molti altri aspetti del film, come i vari cambi di registro (per certi aspetti è forse il film con le scene più esplicitamente comiche del regista - penso al vestito da valletto di Django - ma anche la pellicola in cui Tarantino utilizza la violenza - mi riferisco ad un paio di scene in particolare - in maniera meno esplicita visivamente ma più disturbante a livello emotivo), ma penso di essermi dilungato fin troppo, è ora di andare a vedere il film in lingua originale.
Ah: no, non l'ho trovato troppo lungo.