1975, di Lucio Fulci. Con: Fabio Testi, Lynne Frederick, Michael J. Pollard, Harry Baird, Tomas Milian, Bruno Corazzari, Adolfo Lastretti, Giorgio Trestini
I quattro dell'apocalisse fa parte di quel ristretto gruppo di film
che, ad anni '70 abbondantemente inoltrati, quando il western italiano
era ormai irrimediabilmente compromesso su tutti i fronti (quello
qualitativo innanzitutto), ha provato – e con successo, per chi scrive –
ha ridare linfa al genere proprio al suo crepuscolo, un po’ come a
dire: “almeno chiudiamo in bellezza”. Basti pensare a Keoma, California, ma anche, seppur in misura minore, a Mannaja.
In questo contesto, Fulci, al suo secondo western (il terzo, Sella
d’argento è considerato, per convenzione, uno degli ultimi “spaghetti”
prodotti), gira quello che di fatto è un originalissimo e nerissimo road movie
(ridotto per il grande schermo da alcuni racconti di Francis Brett
Harthe), caratterizzato da una narrazione singhiozzante, una fotografia
ricercata e a tratti luminosissima e soprattutto dalla crudelissima
cifra stilistica del regista, che se in Le colt cantarono la morte e fu … tempo di massacro era già presente in fase embrionale, qua esplode
in tutto il suo perfido splendore. E, per chi come me non ama gli zombies e l’horror in generale, in quello che rappresenta il suo più alto picco qualitativo.
I personaggi a cui fa riferimento il titolo, un gruppo disomogeneo di disperati - un gambler un po’ dandy (Fabio Testi), una prostituta incinta (Lynne Frederick, la bellissima ultima moglie di Peter Sellers), un nero toccato che parla con i morti (Harry Baird) e un
alcolizzato (Michael J. Pollard) - sono ottimamente caratterizzati e decisamente ben
interpretati, ma una menzione a parte ed un’attenzione particolare vanno
concesse al Chaco di Tomas Milian (eccezionale, in una delle sue
migliori performance, che dice di essersi ispirato a Charles Manson
per interpretare questo ruolo), un villain assolutamente
fuori dagli schemi e decisamente in linea con la poetica della crudeltà
di Fulci, la cui malvagità non è il veicolo per raggiungere un obiettivo
di qualsivoglia tipo (nel western, usualmente, un vantaggio economico),
ma è il fine, la sostanza stessa del suo essere: decisamente il più
sadico, pazzo, bastardo, figlio di puttana che abbia mai calcato le
scene di un western italiano, e forse non solo.
È infine opportuno spendere due parole per la colonna sonora, che si
discosta in maniera radicale da quelle più tipiche dei classici western
(sia americani che europei) e si appropria per contro di sonorità di
chiara matrice country-rock e west coast, conferendo all’opera un tono molto yankee e molto "anni '70", anche per i brani cantati (e già questa, da sola, sarebbe una peculiarità) in inglese.
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